la Repubblica, 7 dicembre 2015
Le lettere d’amore (e di farfalle) di Nabokov
Nel caso dei grandi romanzieri e poeti, il rapporto tra quanto viene scritto affinché venga pubblicato e quello che si scrive in privato ha sempre appassionato i critici e i lettori, che si sono divisi tra coloro che vedono una assoluta continuità tra libri ed epistolari, e chi invece sostiene che si tratta di una complementarità che trova la propria suggestione, ed in fondo l’ultima verità, nella netta separazione tra queste due forme di espressione. Nella scrittura privata c’è un minore lavoro di cesello e una maggiore sincerità, ma esistono autori per i quali il secondo elemento prescinde il limite del primo, per la spontaneità del loro talento e l’inscindibile rapporto del destinatario delle lettere con l’oggetto della propria espressione artistica.
Eloquente in tal senso Vladimir Nabokov, del quale sono state pubblicate le lettere alla moglie Vera (Letters to Vera è il titolo del libro, qui ne riproduciamo alcuni brani): un epistolario illuminante e commovente, che consente di ripercorrere le tappe di una storia d’amore durata più di cinquant’anni, e di una carriera che lo scrittore non avrebbe potuto concepire senza la moglie.
Vera distrusse gran parte delle proprie lettere, ed è affascinante riempire i vuoti seguendo la suggestione della prosa raffinata e sempre ironica del romanziere, che affermò ripetutamente «non sarei nulla senza di lei».
Per comprendere l’essenza di uno scambio che Vera definì «un gioco di scacchi a distanza», è necessario tenere a mente alcuni dati: Nabokov proveniva dall’aristocrazia russa, mentre Vera, figlia di un editore, era di origini ebraiche. Lo scrittore era un liberale, che non riuscì mai a superare il trauma dell’omicidio del padre, ucciso per caso in un attentato al politico Pavel Milyukov. Ed era in grado, sin dall’infanzia, di esprimersi correttamente in tre lingue: russo, inglese e francese.
Gran parte delle lettere, curate da Brian Boyd e Olga Voronina sono scritte tra il 1923, anno nel quale usavano gli pseudonimi di V. Sirin e Madame Bertran, ed il 1944. Lo scrittore non rivela alcuna paura dei sentimenti: chiama la donna amata “gattino”, “vita mia”, “mio amore di tanti colori”, e poi la definisce “la mia favola”, aggiungendo «sei l’unica persona con cui posso parlare della forma di una nuvola, della canzone di un pensiero». Non c’è lettera che non testimoni il rapporto di simbiosi intellettuale sul quale era fondato un amore inossidabi- le. Vera, per Nabokov, era il rifugio dal mondo ma anche il modo per comprenderlo. Negli anni si prestò a diventarne segretaria e dattilografa, ma fu la prima responsabile delle scelte più importanti, anche in campo artistico. Lo scrittore le scrive osservazioni su animali, paesaggi e libri, alternando riflessioni incantate sul senso ultimo della vita a veri e propri indovinelli: in uno dei più inquietanti chiede un parere sull’antisemitismo, la morte ed il suicidio. E parla spesso del figlio Dimitri.
Anche quando sono brevi, le lettere hanno una struttura profondamente nabokoviana: c’è spazio per qualche poesia e sono infinite le osservazioni folgoranti sulle apparenti casualità dell’esistenza. Poco lo spazio per la letteratura: Nabokov ammirava Flaubert e Salinger e non amava Thomas Mann. Anche l’abominio del nazismo compare sullo sfondo: l’intimità dei due amanti sembra riuscire a vincere di fronte alle tragedie più grandi. Numerose invece le lettere che elencano i pasti, le farfalle raccolte, le ore di sonno e la ritualità del lavoro. In apparenza banali descrizioni quotidiane, ma tutte rimandano a qualcosa di profondo e misterioso, sul quale lo scrittore, agnostico, riflette con la moglie.
Nabokov scrisse a Vera anche quando ebbe una storia con Irina Guadanini: il tono innamorato non cambia, e tutto lascia pensare che non si trattasse di ipocrisia ma del tentativo di convincere se stesso a superare una crisi. Vera gli intimò di scegliere tra lei e Irina, e quando vinse la sua battaglia si dedicò con ulteriore dedizione al marito.
Dopo il successo e lo scandalo planetario di Lolita cominciò a portare una pistola per difenderlo da possibili aggressori, e reagì all’incanto per l’esistenza di Vladimir con un pragmatismo che spesso si colorava di cupezza. Non c’è lettera dello scrittore che non inizi con una dichiarazione d’amore, e, da quanto suggerisce questo bel libro, le missive della moglie erano ancora più tenere e appassionate. Vera decise di distruggerle: erano un tesoro troppo grande perché venisse condiviso con il mondo.
Berlino – Wilmersdorf
Amore mio e mia adorata, naturalmente sono molto felice, Madre santa, se alla fine vai in Cecoslovacchia. Buona fortuna, mia cara.
Ma ascolta, nella tua prossima lettera raccontami nel dettaglio la diagnosi del dottore. Posso immaginare quanto tu sia esausta, mia cara, e sovreccitata, ma credimi, ti sentirai molto meglio durante l’estate e ti riposerai per bene. Io starò tutto il tempo con il piccolo, e scriverò di notte. Riguardo al passaporto: non ti rendi conto che la mia posizione è eccezionale e che non mi devo preoccupare dei récépissés ecc., come altre persone.
Ho detto a Rodzjanko e Maklakov delle tue preoccupazioni: sono ridicole, mia cara. Ho paura che sia l’influenza ansiosa di tua cugina.
Tra l’altro, io sto per ottenere un permis de séjour permanent.
Ti prego, non pensarci più! Ti amo, mia adorata, e sono terribilmente in ansia per la tua salute, specialmente considerando che il mio piccolino è nervoso e incontrollabile. Resisti ancora un pochettino e tutto andrà bene. Qui fa un clima fantastico. Ora vado da Lefèvre e poi da Jablonovsk, Sergej. Mia cara… V.
2 OTTOBRE 1942
Craigie Circle, Cambridge,
Massachusetts
Mia cara, solo qualche parola per dirti che ti adoro e che sono arrivato felicemente, dopo varie peripezie, alle sei del pomeriggio, mentre la conferenza (molto riuscita) era alle otto. Ora sto correndo alla prossima (sono tre in tutto).
Ti scriverò di nuovo nei dettagli oggi.
Un bacio al mio Miten’ka e ad Anjuta. V.
11 OTTOBRE 1942
Cambridge, Massachusetts
Mio caro amore, troppe poche farfalle qui (circa 300 metri sopra il livello del mare), spero che a Valdosta ce ne siano di più. Come prima, mi pagano tutto, fino all’ultimo centesimo. La mia conferenza su Pushkin (sangue negro!) è stata accolta con un entusiasmo quasi comico. Ho deciso di concluderla con una lettura di Mozart e Salieri, e dal momento che qui non solo Pushkin, ma anche la musica godono di grande considerazione, ho avuto l’idea un po’ maliziosa di infilare il violino e poi il pianoforte fra quei tre posti dove Mozart (e il musicista mendicante) produce musica.
L’effetto desiderato (anche qui, piuttosto comico) è stato raggiunto con l’aiuto di un disco per grammofono e di una pianista. Oltre a questo sono andato a una lezione di biologia, ho chiacchierato di mimica e due giorni fa ho viaggiato insieme a una professoressa e a un gruppo di signorine nerissime, che masticavano bubblegum con grande intensità, su una carrozza con automobile aggiunta per raccogliere insetti a una ventina di miglia da qui. Miss Read, la preside del college, è una persona molto amabile, schietta, con una verruca accanto alla narice, ma troppo ideologica: ogni mattina faccio colazione da lei (con conversazioni sul problema dei negri e la telepatia) e ogni mattina, alle 9, sono costretto a visitare la cappella insieme a lei e starmene seduto insieme a lei sul palco con la mantella accademica, di fronte a quattrocento fanciulle che cantano inni in mezzo all’infuriare dell’organo. Ho chiesto misericordia, dicendole che sono eretico, che odio ogni genere di canto e di musica, ma lei mi ha replicato, severa: va tutto bene, qui imparerà ad apprezzarlo. In mio onore hanno scelto preghiere che ringraziano Dio per «la poesia e le piccole cose della natura; per un treno che passa rombando nella notte; per gli artigiani e i poeti; per quelli che traggono piacere dal fare le cose e le fanno bene»; oltre a musica di L’vov – Dio protegga lo zar – arrangiata come un inno inglese. È tutto piuttosto commovente, ma difficile. (...) Sono triste di non ricevere tue lettere, mia cara. Un abbraccio ad Anjuta. Come sta il mio inestimabile tesoro? ho cercato cartoline con i treni, ma non ce ne sono. un bacio, mio Mitjushen’ka.
8 APRILE 1970
San Domenico Palace Hotel, Taormina
Mio angelo, [in italiano nel testo] finalmente ho trovato il nostro ristorante, si chiama Chez Angelo, ed è davvero molto piacevole. Ieri mattina (come sai dalla nostra pedante lettera di martedì) il tempo era tristemente nuvoloso, ma all’improvviso si è verificato l’affascinante miracolo della Primavera a Fjal’ta. Ero fra i cannellini e il caffè quando improvvisamente ho notato una fossetta sulla guancia della giornata, e dopo aver annullato il caffè (ma non prima di finire il mio fantastico Corvo Rosso), in tre minuti ero ai piedi dell’Hotel Excelsior e ho sorpreso una delle più deliziose incantatrici del luogo (je m’excuse de ces mots un peu forts), una Thais Zerynthia hypsipyle
cassandra. Sono assolutamente innamorato di Taormina e ho quasi comprato una villa qui (8 stanze, 3 bagni, 20 olivi). (...) Per qualche ragione, tutti i camerieri italiani che parlano inglese pronunciano vegetables come se facesse rima con
tables. Sono andato a letto alle otto e mezza, ho preso il phanodorm e ho dormito dalle nove alle sei con una breve interruzione. Per questo, di’ a Janits (o meglio non dirglielo) che il piccolo, immacolato «dacron-marquisette» usato per cucire il retino ora è colorato: oh, non del sangue vergine di una giovane farfalla, ma del mio vecchio sangue umano, succhiato da una zanzara perita la notte scorsa. Non scriverò più su questa carta ridicolmente sottile, è tutta trasparente. (...) Mi manchi terribilmente, mia adorata! La mia 220 e la tua 221 sono le ultime sul lato di un corridoio enormemente ampio, o piuttosto una prospettiva, con le porte una di fronte all’altra. La porta proprio di fronte alla tua è un buffo trompe l’oeil: è finta, dipinta sulla parete, e dietro un monaco allegrotto fa capolino con la sua barba bianca.
Non credo che rischiarerà. Tanti, tantissimi baci. Rimango in attesa di una tua telefonata o di un bigliettino. V.