il Giornale, 7 dicembre 2015
Al casinò con gli anziani che si giocano la pensione
A 82 anni la signora Luisa è un po’ malferma sulle gambe. Per salire sul pullman granturismo si appoggia a un bastone e alla badante, una ragazzona di colore che non smette mai di sorridere. Si siede nelle prime file e saluta gli altri viaggiatori. Più o meno si conoscono tutti, se non altro di vista. C’è chi quel percorso lo fa praticamente tutti i giorni, chi, metodicamente, sceglie un giorno alla settimana, chi, invece, si presenta solo di tanto in tanto. Lei, la signora Luisa, all’inizio non sembra parlare volentieri, ma subito si lascia andare. «Io? Ma no, non vengo spesso, quando ho voglia, due o tre volte al mese. Anzi, tanto vale che le dica la verità, vengo fino a quando sono bella pulita». Cioè? «Pulita, senza un soldo. Poi il mese dopo arrivano le pensioni; ho la mia e quella da vedova. E allora ricomincio». Il pullman è uno dei quattro che tutti i santi giorni, domeniche comprese, partono da Milano diretti al Casinò di Campione d’Italia, il più grande d’Europa. L’anno scorso nel palazzone disegnato dall’archistar Mario Botta gli ingressi sono stati più di 700mila e tra i giocatori c’è un po’ di tutto: slavi con le tasche piene di rotoli di banconote; uomini d’affari svizzeri che si presentano al tavolo della roulette come a quello di un consiglio di amministrazione; giovani, molti più uomini che donne, in cerca di trasgressione. E poi ci sono loro, i pendolari del casinò, la classe operaia dell’azzardo. Partono da Milano come per andare in gita; prendono i pullman che li caricano alla Stazione Centrale, a Porta Garibaldi, in Piazzale Cadorna. Grazie al passaparola (non ci sono cartelli né segnali stradali) conoscono a memoria orari e percorsi. Uno dei pullman, quello che parte dal Cimitero Monumentale nel primo pomeriggio, è praticamente off limits per gli italiani e trasporta solo giocatori cinesi. «Loro non ci vogliono, e noi non vogliamo loro», spiega un habitué con accento lombardo. Proprio i cinesi sono la speranza dei Casinò, messi in crisi dal proliferare di slot machine nei bar di mezza Italia. Hanno per il gioco una passione smodata. A Pechino e dintorni bische e azzardo sono vietatissimi e puniti con sanzioni pesanti. Loro sfidano anni di galera per scommettere, e appena hanno quattro soldi prendono l’aereo per Macao, l’ex colonia portoghese, che con i suoi 35 casinò e i 13 miliardi di dollari di giro d’affari, ha da tempo superato Las Vegas come mecca dell’azzardo globale. I cinesi di Milano non sono diversi: lavorano 60 e passa ore alla settimana nei bar e nei laboratori di via Paolo Sarpi. Poi fanno un salto in sala giochi (in zona ce ne sono sei), o, se hanno mezza giornata libera, vanno a Saint Vincent o a Campione. Con i loro giubbotti di finta pelle e le improbabili minigonne inguinali non contribuiscono certo all’immagine elegante del gioco, quella, per intenderci, dei film di James Bond. Ma sono dei clienti formidabili. Campione d’Italia ha puntato molto su di loro: le feste cinesi, a partire dal Capodanno, vengono celebrate con veglioni e cene di gala, i giocatori sono accolti alla reception da impiegati madre lingua e scritte in mandarino, le prime fiches sono in regalo, i buoni gratis per il ristorante distribuiti con abbondanza.
Il trattamento di favore fa ingelosire i giocatori italiani. E per sentire qualche giudizio pesante sui rivali basta prendere il pullman che parte in tarda mattinata dalla Stazione Centrale, uno di quelli riservati ai passeggeri tricolori. Tra i collegamenti con Campione è il più proletario: la linea, sovvenzionata dal Casinò, è gratuita. Come dice un passeggero, «è il pullman degli stirati», e lo «stirato» è chi ha perso i suoi soldi in qualche giro di roulette. I viaggiatori sono come divisi da un confine invisibile. Nelle prime file i pensionati, più donne che uomini. Chiacchierano e ridono tra di loro, come in un qualsiasi gruppo di anziani della parrocchia. L’unico segno distintivo è un’eleganza un po’ appariscente e leggermente fuori moda. L’età media è alta. «Dice che siamo vecchi?», ride una signora vicina ai 90 anni. «I vecchi sono quelli che stanno a casa, noi siamo qui a divertirci». Le slot machine dei bar suscitano unanime riprovazione. «Sono squallide. E poi al Casinò si incassa di più», dice una passeggera, anche se poi ammette: «È vero, si perde anche di più. E pure al Casinò non si vince mai». È una signora come tante altre. Racconta della figlia, dei nipotini a cui piacciono tanto le lasagne della nonna. Un paio di volte al mese il viaggio a Campione: «È un passatempo, come andare a teatro, appena più costoso». Mano a mano che si procede verso il fondo del pullman l’atmosfera cambia. Seduti, uno distante dall’altro, ci sono solo uomini. Quando sono saliti si sono scambiati un segno di saluto. Ma nel tragitto parlano pochissimo, persi dietro i loro pensieri. O forse persi dietro un unico pensiero.
Sono i duri e puri dell’azzardo, quelli che con il gioco hanno il rapporto più complicato. Come Jonathan, 37 anni, che abita con i genitori in un paesone della Brianza. Potrebbe essere un impiegato di banca. Parla mentre da un sacchetto tira fuori il panino che si è portato da casa. «Quante volte vado al casinò? In questo periodo spesso, praticamente tutti i giorni», dice con un filo di imbarazzo. «Lavoravo in un supermercato, facevo il magazziniere, mi hanno licenziato perché gli affari non andavano bene». Il tono è quasi rassegnato. «In passato mi è capitato di perdere 10mila euro in un giorno, e quando succede si sta malissimo. Adesso, però, riesco a controllarmi. Punto poco, pochissimo, anche perché non ho granché, l’indennità di disoccupazione e qualche mancia di mamma e papà». Poco distante c’è Giuseppe, 45 anni, milanese di periferia, fisico tozzo, un giubbotto e una cuffia che resta calata sulla fronte anche in pullman. Guarda i compagni di viaggio un po’ dall’alto in basso: «Io ho sempre giocato forte. A Saint Vincent mi hanno dato la tessera Vip, mi ospitavano in albergo quando mi fermavo la sera». Ma la storia non è andata nel verso giusto. «Naturale, ho perso. Ho perso molto. Allora gestivo dei bar, uno molto importante in pieno centro, e adesso faccio il cameriere per una società di catering». Il pensiero, però, va ancora al casinò: «Una volta giocavo senza pensare, ora ci metto la testa. Durante la settimana punto poco, nel week end investo 600 euro al poker. Se li perdo, ho finito, non vado oltre. Nel poker il segreto è sapere quando alzarsi dal tavolo. E io voglio diventare un professionista, che sa fare i suoi calcoli». Il tempo delle confidenze è quello passato sul pullman. Una volta arrivati al casinò, ognuno va per conto suo. L’atmosfera è concentrata, si parla poco. A chi fa domande si riserva un’attenzione cortese ma lievemente infastidita, come quella di chi teme che la minima distrazione possa pregiudicare un lavoro delicato e impegnativo. La prima tappa è il regno infinito delle slot machine, al primo e al secondo piano. Poi nel primo pomeriggio si sale fino al terzo, aprono i tavoli dei giochi francesi e americani: roulette, baccarat, black jack. Un po’ più tardi è la volta del poker. Ma c’è chi rimane tutto il giorno davanti alle slot. Come la signora Luisa. Con l’inseparabile badante al fianco, mantiene lo sguardo fisso sulle macchinette e si limita a cambiare fila ogni tanto. Per non allontanarsi si è fatta portare un toast e una spremuta. Ma non è giornata: alle sei di sera ha già perso quasi mille euro. E l’umore è pessimo. «Ha ragione mia figlia, quando mi chiama me lo chiede sempre: ci sei tornata nel tuo buco nero? Con mio marito ho giocato 40 anni, abbiamo perso un’azienda intera, quattro miliardi valeva. Mi dica lei... Non c’è niente da fare, è una droga, una maledizione. Ma è anche l’unica cosa che mi fa salire l’adrenalina, che non mi fa pensare alla morte. E adesso mi scusi, voglio cambiare macchina. Perché il segreto è scegliere quella giusta».