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 2015  dicembre 07 Lunedì calendario

La straordinaria storia del pugile Vinny Pazienza. Ora Scorsese ne ha fatto un film

La boxe torna sul grande schermo. E soprattutto torna a fare alti incassi. L’effetto Rocky funziona ancora. «Creed», settimo film della saga, l’unico dove Stallone non combatte, sta andando benissimo in Usa. E l’anno prossimo uscirà «Bleed For This» di Ben Younger, prodotto da Martin Scorsese, interpretato da Miles Teller, lo stesso di «Whiplash». È tratto da una storia vera, quella di Vinny Pazienza, soprannominato Pazman che in 21 anni di carriera (si è ritirato nel 2004) ha vinto cinque titoli mondiali in tre diverse categorie. Avversari veri: Roberto Duran, Roy Jones jr, Roger Mayweather, Hector «Macho» Camacho. Un guerriero, uno che nella vita se la godeva, fino al terribile schianto. Per l’America un mito, il vero Rocky Balboa, anzi «The Comeback Kid» come titolò Usa Today quando nel ’92, tredici mesi dopo essersi rotto l’osso del collo, Vinny tornò ad essere campione del mondo. Ora Paz ha 53 anni, e fa conferenze per spiegare che non bisogna mai arrendersi (soprattutto ai dottori).
Paz, lei salì sul ring per Rocky.
«Esatto. Venivo da una famiglia italiana. Vivevo a Cranston, Rhode Island. Avevo 14 anni nel ’76, restai folgorato dal film, il giorno dopo andai in palestra. Sul ring picchiavo, non mi arrendevo, non m’interessava pareggiare, le davo e le prendevo, in questo era onesto. Se mi rompevo naso e mano, andavo avanti, non imploravo misericordia, né volevo incontrare schiappe. Il mio problema era il peso. Ero sempre a dieta, mi sottoponevo a saune assurde. Ma nell’87 vinsi il titolo dei leggeri Ibf contro Greg Haugen. Tiravo colpi a ripetizione».
Mise ko anche l’arbitro.
«Per forza, stava in mezzo. Diventai l’idolo della nostra comunità, nel New England tutti mi conoscevano, quella era la zona di Rocky Marciano. Ero bianco come lui. Ero estroso, popolare, entravo sul ring con abiti luccicanti, sui calzoncini mi feci stampare la frase ‘Kick ass’, calci in culo. Non sapevo ancora che li avrei presi io. Il governatore dello stato del Rhode Island chiuse 45 istituti di credito, persi tutti i miei soldi. Mi venne voglia di tornare a Las Vegas dove avevo vinto un gruzzolo al casinò. Almeno il gioco d’azzardo non bara. Me lo vietò mia madre».
Ha visto il film Creed?
«L’altra sera, e con tutto il rispetto mi ha depresso. Balboa è vecchio, ha il cancro, fa l’allenatore, sua moglie è morta, il coach anche. Per me il vero Rocky non è quello lì, bastonato dalla vita. Devo essere stato scemo da ragazzo a diventare pugile per lui. Il mio film è un’altra cosa, è su chi si rimette in piedi quando gli dicono: ragazzo, non salirai più sul ring».
È quello che le comunicò il neurologo.
«Sì. Aggiunse anche che forse non avrei avuto una vita normale. Avevo appena battuto Dele, per il titolo Wba dei superleggeri. Era inverno, la strada era gelata, guidava un amico, una macchina ci tagliò la strada, finimmo sull’altra corsia, un furgone ci prese un pieno, ci ribaltammo, la nostra auto si accartocciò, anzi venne tagliata in due. Quando mi risvegliai all’ospedale sentii che stavano pregando per me. La macchina non era assicurata. Zero soldi, zero futuro. Avevo 29 anni».
Il dottore non le lasciò speranze.
«No. Mi ero rotto l’osso del collo in tre punti. Mi disse: hai chiuso con la boxe. Gli risposi, arrabbiato: lei non mi conosce. Mi misero in testa una specie di aureola, una gabbia, piuttosto invasiva, fissata con quattro viti, che doveva sorreggermi il collo e aiutare le vertebre a rinsaldarsi. Avrei dovuto vivere con quella. Mi trasferii di nuovo a casa dei miei, da solo non potevo fare più nulla, nemmeno la barba. Il dottore mi minacciò: se ti muovi troppo rischi l’invalidità».
Non lo ascoltò.
«Figurarsi. Feci tutto di nascosto, anche dai miei. Tornai in palestra, mi rimisi a sollevare pesi, per tre mesi sempre con quel casco in testa. All’ospedale avevo rifiutato ogni sedativo, anche se avevo mal di testa pazzeschi, perché sapevo che mi avrebbero rovinato il fegato. Quando mi tolsero l’aggeggio, feci l’esame, le vertebre erano tornate a posto, ma il dottore, che non era uno scemo, mi chiese se avevo trasgredito. Che dovevo dirgli?».
 La verità.
«L’aveva capito anche lui che non ero stato fermo. Né con il sesso, né con il ring. Mi aspettavo una sfuriata, invece disse a mio padre: il ragazzo conosce il suo corpo più di noi. Ma in palestra nessuno voleva boxare contro di me, avevano paura, perfino il mio sparring partner, l’ho dovuto minacciare di morte, altrimenti non mi picchiava. E la fidanzata mi lasciò. Non garantivo più né soldi né domani. Io non sono un santo, ma non fu bello. Anche i Duva, i miei manager, mi mollarono. Ero ormai uno da rottamare, non uno da resuscitare».
E invece.
«Bisogna crederci. Sempre. A dicembre ’92 ero di nuovo sul ring. Vinsi ai punti contro Luis Santana. Io pazzo, il mio pubblico anche. Non mi sono fermato, ho continuato, ho fatto due volte a botte con Duran e ho vinto. Ma la sensazione è che avesse un martello al posto dei pugni, mollava siluri tremendi».
Lei era eccessivo: donne, alcol, velocità.
«Mi hanno messo in conto anche un po’ di risse. E sì frequento ballerine, non vedo il problema. Ma il pugilato deve essere vivo, ci vuole molta disciplina per farlo, devi allenarti come un animale, e su quello non ho mai scherzato. Sono contento che Vladimir Klitschko abbia perso il titolo dei massimi, pugili come lui sono un danno, nessuno se li ricorda. Sono la noia e la normalità ad uccidere la boxe. Sul ring la pazzia è bella».