Corriere della Sera, 7 dicembre 2015
Sull’ora di religione e sul modello francese
A proposito di presepi nelle scuole, penso che l’ultima parola dovrebbe essere lasciata ai diretti interessati, cioè gli alunni e non ad adulti litigiosi e prevenuti. Che male può fare un presepio per la celebrazione di una festa occasione di pace e affetti familiari? Se si vede in questo scarsa sensibilità verso chi cristiano non è, bisognerebbe essere coerenti e togliere altri simboli di origine cristiana, a partire dal calendario. La rinuncia alle nostre tradizioni religiose ci espone al massimo disprezzo. Un musulmano considera il Corano come unica Verità e mai rinuncerebbe alle proprie convinzioni religiose. Il farlo ci espone alla considerazione che siamo una società decadente a cui sarà facile imporre l’Islam.
Federico Lenchi
Non mi trovo d’accordo con una sua risposta. Oggi che «il nostro Paese sta diventando multietnico e multireligioso» non significa mettere da parte la nostra cultura e le nostre tradizioni per non «esaltare ciò che ci rende diversi da chi ha altre credenze». Per entrare in una moschea è obbligatorio togliersi le scarpe, indossare un abito tipico consegnato all’entrata e, per le donne, coprirsi il capo senza che questo susciti alcuna reazione o disapprovazione da parte di chi professa un’altra religione. Chi si trova in un Paese straniero deve sapere accettare le regole. A scuola, durante l’ora di religione, i non cattolici possono chiedere di essere dispensati ma non si può pensare di togliere l’ora di religione.
Attilio Leotta
Cari lettori,
La scuola non è una democrazia. Possono esservi consultazioni e scambi di opinioni, ma le scelte spettano a coloro che hanno funzioni pubbliche e sono chiamati a rispondere delle loro decisioni culturali e organizzative. Se vi fossero votazioni, avremmo in breve tempo partiti, campagne elettorali e magari, in questo caso, piccole guerre di religione. Posso darvi, a questo proposito, un esempio interessante.
La Francia è tra gli Stati europei, senza contare la Russia, il Paese cristiano che ha la maggiore comunità musulmana: circa 6 milioni a cui si aggiungono 600.000 ebrei, una maggioranza cattolica ma una forte tradizione ugonotta e il mondo variopinto delle confessioni minori. Questa convivenza ha spesso creato problemi di adattamento e ha richiesto l’intervento dello Stato. Quando i presidi e i provveditori cominciarono a segnalare che gli scontri e gli incidenti, soprattutto fra allievi ebrei e arabi, stavano diventando sempre più numerosi, il presidente della Repubblica (era Jacques Chirac) decise la costituzione di una Commissione composta da 20 personalità del mondo universitario, culturale, sociale, religioso, e presieduta da un ex ministro (Bernard Stasi). Dopo lunghi lavori, la Commissione pubblicò nel 2004 un rapporto che conteneva alcune proposte fra cui il divieto nelle scuole medie, inferiori e superiori, di tutti i simboli religiosi: la kippah dei ragazzi ebrei, il velo delle ragazze musulmane e il crocifisso, se visibilmente ostentato. La decisione provocò la protesta formale delle maggiori autorità religiose francesi (l’arcivescovo di Parigi, il Grande iman di Parigi e il Gran rabbino di Francia), tutte unite da uno stesso interesse «corporativo». Ma credo che ciascuna di esse, in realtà, fosse riconoscente al governo di essere intervenuto. Non so se esistano statistiche sul numero degli incidenti prima e dopo l’adozione delle misure proposte dal rapporto. Ma la decisione ebbe il merito di dimostrare che le scuole dello Stato francese erano, nelle questioni di fede, rigorosamente neutrali.
Quanto all’«ora di religione», caro Leotta, penso che nelle scuole non dovrebbero esservi lezioni di religione tenute da docenti designati dalle diocesi, ma corsi di storia delle religioni tenute da docenti del corpo scolastico.