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 2015  dicembre 06 Domenica calendario

Anche grazie al fotoromanzo l’Italia imparò a leggere

In principio era il feuilleton. Romanzo popolare di buoni sentimenti pubblicato a puntate sui giornali e destinato a influire nell’immaginario di intere generazioni dell’Ottocento e del primo Novecento. Destinato alle classi inferiori che si avvicinano alla lettura per la prima volta, grazie alle nuove tecniche di stampa, è un fenomeno europeo, soprattutto francese, che tocca l’Italia solo marginalmente.
Nel secondo dopoguerra l’analfabetismo non è ancora scomparso. Resiste tenacemente, soprattutto nelle zone rurali e più povere, tanto che a un’indagine Doxa del 1947 gli intervistati che non leggono libri sono ancora il 66%, una maggioranza silenziosa che si accontenta di «guardare le figure». Attratta dal cinema come rappresentazione di un mondo sognato e inarrivabile, come anche dai fumetti che si pubblicano in albi di poco prezzo e di scarsa qualità, preferisce l’evasione all’impegno.
L’editoria degli anni Quaranta coglie questa opportunità di lettura per immagini e la sfrutta a proprio vantaggio. Protagonista indiscusso è un giovane venditore ambulante di fascicoli che ha avuto problemi con il regime, è in odore di antifascismo e per questo si muove tra Italia e Francia. Si chiama Pacifico Del Duca, ma tutti lo conoscono come Cino: assieme ai fratelli Domenico e Alceo aveva dato vita dal 1928 all’editrice Moderna (poi Universo). Della sua storia si parla nel libro di Isabelle Antonutti, Cino Del Duca. Un editore tra Italia e Francia (Franco Angeli), che lo vede assurgere a magnate dell’editoria popolare, da semplice ferroviere a «re della stampa rosa» in entrambi i Paesi.
Negli anni Trenta i Del Duca avevano lanciato «Il Monello» e «L’Intrepido», giornalini destinati ai giovanissimi, assieme ad altre pubblicazioni di livello popolare, soprattutto romanzi d’amore venduti a dispense. Come Lina, la sartina sventurata o Cuore garibaldino, dove al sentimentalismo si mescolano il patriottismo e l’avventura, assicuravano ampio successo di pubblico e buoni introiti.
Ma la svolta avviene nel 1946, quando i Del Duca, con un’originale intuizione, coniugano i contenuti del romanzo popolare al fumetto: un rosa illustrato che, oltre alle immagini, utilizza brevi didascalie e i tradizionali baloons per far parlare i personaggi, rivolgendosi a un pubblico prevalentemente femminile. In quell’anno esce per la prima volta «Grand Hôtel», 16 pagine per 12 lire, subito gratificato da una tiratura che supera le seicentomila copie.
Il fotoromanzo, come «storia d’amore a fotogrammi», nasce subito dopo, simulando la visione cinematografica e sovrapponendola al feuilleton. A dargli forma concreta è Stefano Reda nel 1947 con il settimanale «Sogno» dell’editrice romana Novissima, realizzando due storie fotografiche per la regia di Damiano Damiani. Si adeguano subito alla novità «Bolero» della Mondadori e «Grand Hôtel», mentre Cino Del Duca, nello stesso anno, riproduce questo modello in Francia con «Nous Deux», settimanale da 300 mila copie, che raggiungerà tirature da un milione e mezzo negli anni Cinquanta. Gli attori sono presi spesso dal cinema, come più tardi dalla televisione, attratti dal nuovo mezzo di comunicazione e dalla popolarità straordinaria che assicura. Le lettrici amano ritrovare i volti noti conosciuti sul grande schermo, contribuendo a rafforzare il legame tra cinema e carta stampata, fino alla citazione reciproca: Giuseppe De Santis fa leggere «Grand Hôtel» a Silvana Mangano in Riso amaro (1949), Federico Fellini mette in scena il fotoromanzo in Lo sceicco bianco (1952) con Alberto Sordi. Un po’ tutti si prestano a posare negli studi, da Amedeo Nazzari a Gina Lollobrigida, da Rossano Brazzi a Sophia Lorena e Vittorio Gassman; più tardi i volti della Tv, Mike Bongiorno, Delia Scala, Mario Riva, Gabriella Farinon. Ma anche attori che trovano la loro strada direttamente nel fotoromanzo, destinati a divenire famosi tra le lettrici, come Michela Roc, Franco Gasparri, Adriana Rame, Armando e Luciano Francioli.
Questo «cinema dei poveri» che fa sognare un pubblico stanco di privazioni, pronto a seguire il miraggio consumista, entra nell’immaginario popolare, fa cultura, malgrado le reticenze e le critiche. Forse più del rosa di Liala, Mura e Delly, che aveva esplicite finalità educative per le giovani, è stato giudicato negativamente, quasi un sottoprodotto dell’industria culturale di massa, ben lontano da quell’ideale di democratizzazione della cultura sostenuto da Walter Benjamin. E per questa ragione bandito dalla critica ufficiale, quasi «rimosso» dalla coscienza sociale.
Studi più recenti, come quello di Anna Bravo (Il fotoromanzo, Il Mulino), come già Edgar Morin all’inizio degli anni Sessanta, scagionano il fotoromanzo dall’accusa di corruzione dei costumi: denigrato e biasimato, è ritenuto responsabile, da una parte, di diffondere l’immoralità con le sue storie scandalose di amori contrastati e di tradimenti, dall’altra d’instillare luoghi comuni, confermando i ruoli del maschile e del femminile, secondo una consolidata vocazione conservatrice. Una pratica consolatoria che non era sfuggita ad Antonio Gramsci il quale, nei Quaderni del carcere, distingueva una prima fase progressista nel romanzo popolare (Eugène Sue, Victor Hugo) da una successiva, palesemente reazionaria (Ponson du Terrail, Carolina Invernizio).
Così il fotoromanzo non può fare a meno di risentire delle sue origini populiste, sempre in bilico tra i grandi ideali di pacificazione sociale, propri del socialismo utopistico, e la funzione consolatoria, volta all’accettazione di una realtà dura, ma necessaria. Cino Del Duca dati i suoi trascorsi politici, che lo avevano visto militare tra i socialisti nel paese natale di Montedinove, era la persona più indicata per rappresentare questa ambivalenza. Convinto che la lettura fosse, più che un passatempo, l’occasione di affacciarsi su una realtà in rapida evoluzione e uscire da una condizione di disagio, verso l’agognata felicità, fa scrivere L’hebdomadaire qui porte bonheur (il settimanale che porta la felicità) sulla copertina di «Nous Deux».
Protagonista è sempre la donna, il cui comportamento è destinato a esaltare il senso morale della storia. È virtuosa, onesta, leale, fedele, modesta; rappresenta il principio di ragione che prevale sulle avversità e sugli antagonisti, riconfermando il primato dei buoni sentimenti. Più del romanzo popolare, il fotoromanzo ha goduto dell’immediatezza delle immagini, della semplicità dell’esposizione, del realismo fotografico. Studiato e osservato con attenzione nei comportamenti, nei gesti e negli sguardi degli attori, ma anche nell’arredo degli interni e nell’abbigliamento, è servito da modello per un pubblico che aveva fretta di modernizzarsi, che era stato a lungo all’oscuro dei progressi della società, della moda, del bon ton, del sapere; che poteva trovare un riscontro immediato in quelle foto in bianco e nero, accompagnate da poche frasi di contorno.
Una fame di comunicazione che doveva essere soddisfatta immediatamente, senza aspettare gli effetti di una scolarizzazione generalizzata o dell’introduzione dei media nella vita quotidiana: la televisione, sostituito del fotoromanzo come modello culturale ed educativo, era ancora lontana.
Questo bisogno di comunicare, di confrontarsi, di uscire dal ristretto ambito familiare per aprirsi verso l’esterno, spiega il successo del fotoromanzo, la cui funzione sociale, in un periodo delicato e difficile per chi usciva dal secondo conflitto mondiale, non va sottovalutato. L’educazione sentimentale che veicola, in assenza di altri strumenti, risponde a un’esigenza quanto mai innovativa: quella delle donne che volevano diventare autonome, lavorare, uscire dagli schemi convenzionali in cui erano state racchiuse. Anche attraverso il consumismo, se questo significava un atto di libera scelta. Ma soprattutto di donne che intendevano vivere le emozioni dell’amore, realizzare il loro sentimento indipendentemente da ogni finalità matrimoniale. Liberare la loro sessualità, piuttosto che reprimerla, non limitandosi al ruolo di «vestali della famiglia». E questo, più che la banalità delle storie, la loro ripetitività e sdolcinatezza, faceva paura.