Corriere della Sera, 7 dicembre 2015
Le riforme che ci servirebbero (e che non avremo)
Un governo che in Italia provi a fare certe riforme si espone a un rischio quasi sicuro: quello di perdere le elezioni. Da noi assai più che altrove dato il tipo di compenetrazione tutta particolare che si è stabilita tra lo Stato e la società. Il governo Renzi mi pare esserne consapevole, e infatti si regola di conseguenza.
Quando dico certe riforme intendo quelle che dovrebbero cercare di cambiare il modo d’essere e/o di funzionare di alcuni ambiti e di alcune legislazioni che rappresentano vere e proprie criticità in cui
ci dibattiamo da decenni, ma che sono sempre lì come altrettante
insuperabili colonne d’Ercole della nostra vita collettiva, o che lo stanno ormai diventando.
Penso ad esempio all’organizzazione e al funzionamento della pubblica amministrazione e alla sua superblindatura costituita dal contratto del pubblico impiego; penso alla fitta rete di tutele legislative di cui godono i gruppi più vari (farmacisti, tassisti, notai, ordini professionali di ogni genere, ma anche aziende e rami di attività economica), all’organizzazione della magistratura e della giustizia, alla legislazione sugli appalti e sulla spesa pubblica che con i mostruosi percorsi a ostacoli che prevede sembra fatta apposta per conferire un enorme potere di blocco e di ricatto alla burocrazia e alla politica; penso al sistema fisiologico e diffuso dappertutto degli sperperi più incredibili.
Ma penso anche a riforme meno clamorosamente urgenti ma assolutamente necessarie, quali per esempio quella dei programmi scolastici, fermi a una stagione ideologica ormai tramontata, ovvero alla riforma altrettanto urgente negli studi universitari del sistema di laurea del tre+due, rivelatosi una vera catastrofe.
Come si vede, si tratta di riforme che però presentano elettoralmente uno o l’altro di questi due gravi aspetti negativi: o colpiscono nel proprio personale interesse vasti gruppi di ceto medio, forti, oltre che della loro quota di voti, di ramificate influenze sociali e di una conseguente capacità di ritorsione e di boicottaggio; ovvero di riforme che spaccano ideologicamente l’opinione pubblica. O che fanno talvolta le due cose insieme.
Appare del tutto logico, quindi, che in vari decenni nessun esponente politico si sia voluto bruciare cimentandosi con esse. Pur essendo tutti perfettamente consapevoli che proprio tali riforme sono quelle che davvero servirebbero per rimettere in moto l’Italia su basi nuove, che solo tali riforme farebbero voltare davvero pagina al Paese.
Anche Renzi, ahimè, a dispetto del suo empito attivistico-oratorio-riformistico, sembra intenzionato a tenersi lontano dalle materie elettoralmente scottanti. Basta considerare le principali misure finora adottate o messe in cantiere dal suo governo. Escludendo evidentemente le misure che in realtà costituiscono esborso di quattrini e/o agevolazioni economiche di varia entità e destinazione (bonus, abolizione delle tasse sulla casa e dell’Imu agricola, sblocco dei cantieri fermi, eccetera), sono tre le riforme propriamente dette, avviate o compiute dal governo attuale: il Jobs act, la riforma del Senato, la riforma della legge elettorale. Quanto al primo provvedimento, esso innova sì ma non colpisce alcun interesse costituito, dal momento che o migliora le condizioni contrattuali già in vigore o si applica a contratti di lavoro che vedono la luce solo dopo la sua entrata in vigore. La riforma del Senato, dal canto suo, ha aperto sì un contenzioso violentissimo, ma tutto interno al ceto politico: la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, infatti, è largamente indifferente o vede con favore la fine del bicameralismo. Lo stesso, o quasi, può dirsi della progettata riforma della legge elettorale: se ne appassionano moltissimo i parlamentari (che a ragione vi vedono scritto il loro destino) ma sì e no un paio di milioni di elettori politicizzati; a tutti gli altri essa interessa poco o nulla. In complesso, insomma, si tratta di riforme che pur oggettivamente importanti, tuttavia si presentano come elettoralmente innocue o destinate quasi sicuramente a favorire la linea governativa.
È così che dopo circa due anni l’Italia renziana appare ancora, per gran parte, l’Italia corporativa, taglieggiatrice e classista di sempre, con il suo Stato burocratico, anchilosato e intellettualmente torpido. L’Italia incapace di smantellare strutture soffocanti, di abolire leggi inutili o nocive, di cancellare privilegi, di immettere un largo e spregiudicato soffio rinnovatore nel suo vecchio, troppo vecchio, organismo. E ciò accade, paradossalmente, proprio quando essa è guidata dal gruppo dirigente più giovane e apparentemente dinamico della sua storia. Il quale, però, sembra diventato tanto cautamente accorto oggi, nel gestire il potere, quanto fu invece coraggiosamente audace a suo tempo allorché si trattò di conquistarlo.