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 2015  dicembre 07 Lunedì calendario

Sulla perfidia degli chef

Che in cucina si respiri un clima da caserma si sapeva. Non per niente la squadra di lavoro la chiamano brigata. Lo descrisse bene quindici anni fa Anthony Bourdain in Kitchen Confidential, fortunato libro dal quale nacque una meno felice serie tivù con Bradley Cooper (negli Stati Uniti fu sospesa dopo soli quattro episodi, a causa dei bassi ascolti). 
Un carattere terribile, in teoria, può contribuire ad avvolgere lo chef di turno di un’aura di genio e sregolatezza. Successe, per esempio, quando il critico gastronomico inglese Adrian Anthony Gill venne cacciato dal ristorante del pluristellato Gordon Ramsay a Londra: la recensione fu comunque impeccabile («è un ottimo cuoco»), nonostante la sua irascibilità («è una delusione come uomo»). 
Adesso, l’ultimo a cadere sotto la scure di maestranze e clienti è Jamie Oliver, principe della fusion tra tradizione britannica e cucina italiana, un impero di 42 ristoranti e una scuola di cucina a Notting Hill. Il suo indice di gradimento, su Google, è colato a picco. «Il peggior cibo mai mangiato in vita mia: ho preso il risotto d’autunno e assomigliava a una ciotola di sale», ha scritto Paul Cartmell dopo essere stato nel locale di Portsmouth, nella contea dell’Hampshire. E non è l’unico. Tanto che la cavalleria (giornalistica) inglese di Daily Mail e Times si è scagliata contro lo chef (che peraltro sta trattando la vendita di tutte le sue attività per 200 milioni di sterline). Il problema è che anche i camerieri hanno fatto commenti fumantini: «I manager sono odiosi e inutilmente punitivi, anche per due minuti di ritardo»; «Sono veloci a sanzionare e lenti a esprimere gratitudine». 
Qui da noi sono arcinote le cattiverie a beneficio di telecamera dei giudici di MasterChef, che riescono a dire le cose peggiori ai poveri concorrenti. Dal volto tenebroso di Carlo Cracco è uscito più di un: «Il piatto fa cagare»; «Ci vuole un atto di fede, il profumo è quello della saponetta». Bruno Barbieri, con i suoi occhialetti da bravo ragazzo, ha pronunciato queste parole: «Sono le friselle più inquietanti della mia vita». E l’imprenditore Joe Bastianich, che in tivù non soffre mai di timidezza, dopo aver assaggiato un boccone ha sentenziato: «Mi ha bloccato la gola come una pallina di catrame. Devo andare all’ospedale adesso, se no moro». 
Ma quella è fiction. Nella vita vera si dice di uno chef stellato su piazza milanese che avrebbe una discreta collezione di denunce per aver messo le mani addosso ai collaboratori, mentre di un suo omologo a Roma si raccontano piatti volanti nella cucina del suo ristorante in un grande hotel. 
I nostri cugini francesi non sono da meno, parbleu ! Laggiù, però, si fanno nomi e cognomi. Un giovane apprendista di Joël Robuchon, icona della gastronomia francese nel mondo, qualche mese fa lo ha denunciato per «tirannia». Immediata la replica a suon di avvocati. Ma il vero scandalo, Oltralpe, scoppiò nell’aprile del 2014, quando Franck Pinay-Rabaroust, direttore del sito specializzato Atabula, ricevette la segnalazione dell’apprendista di una nota scuola alberghiera al quale, durante uno stage dal tre stelle Michelin Le Pré Catelan di Frédéric Anton, era stato ustionato l’avambraccio con un cucchiaio incandescente per una salsa venuta male. E pure Yannick Alléno, dello stellato Ledoyen, è stato accusato dallo staff di «comportamento vessatorio». 
Nascono cattivissimi, o lo diventano sul campo? In Italia Gianfranco Vissani è famoso per essere uno dei più irascibili, e la cosa non gli dispiace particolarmente. Neppure Fulvio Pierangelini, che oggi fa soprattutto il consulente, è ricordato per il bel carattere. 
Quanto a essere esigenti, lo scettro va al padre di tutti gli chef: Gualtiero Marchesi. Rispondendo a una domanda su chi siano i clienti peggiori, citò Henri de Toulouse-Lautrec e disse: «Gli ignoranti. La cucina non è destinata agli incivili, ai rozzi e ai filistei». Gelo.