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 2015  dicembre 07 Lunedì calendario

Gianni Rivera, autobiografia di un campione. Tra il golden boy di ieri e l’uomo di oggi c’è un Fiat 1300. Grigia

«Signor Giovanni Rivera, non ho difficoltà a dichiararLe che, qualora allo scadere della stagione calcistica 1962/63, Ella abbia dimostrato un ulteriore sviluppo agonistico, tale da averLe consentito un rendimento superiore a quello dell’annata 1961/62, la presidenza del Milan provvederà, insindacabilmente, ad un’equa maggiorazione del premio di riconferma riconosciutoLe per la stagione 62/63». 
Nulla dimostra quanto sia cambiato il calcio quanto questa lettera di Andrea Rizzoli del 10 settembre 1962, con quelle maiuscole di cortesia manco fosse mandata a un ambasciatore e non a un ragazzetto di 19 anni. Macché procuratori, trattative estenuanti, offerte di disturbo di altri club, contratti da milioni di euro! L’allora presidente del Milan concludeva anzi: «Aggiungo che sue eventuali richieste di anticipazioni sulle rate del premio di riconferma saranno dalla presidenza stessa esaminate con benevolenza, ben s’intende nel limite del possibile». Insomma, che il «Golden Boy» non si sognasse di avere grilli per la testa solo perché era considerato l’astro nascente del calcio italiano, europeo, mondiale. 
La chicca è nel libro Gianni Rivera. Ieri oggi, che è edito da Marconi Productions, esce l’11 dicembre e sarà in vendita solo sul sito dell’ex calciatore, ex deputato, ex sottosegretario eccetera. Un libro di ricordi personali dovuti anche al papà Teresio (un operaio delle ferrovie che cominciò a mettere da parte i ritagli dei giornali di Alessandria quando ancora il pulcino doveva farsi galletto) e della moglie Laura, che ha selezionato centinaia di articoli, curiosità, foto. Ma insieme, essendo il nostro nato poco prima dell’8 settembre, un modo per rileggere il dopoguerra di tutti. A partire dalla decisione dell’anagrafe che il neonato non poteva assolutamente chiamarsi Gianni «perché non c’è nessun santo con quel nome». Giovanni, semmai… E Giovanni fu. 
Nonni contadini da una parte, tavernieri con locanda dall’altra. E lì infatti, sanando il dolore del padre e della mamma Edera, che avevano perso la prima bambina, nacque. Nella locanda. Per crescere poi in una «vecchia casa con un cortile e gli appartamenti (si fa per dire) tutti fianco a fianco su un “ballatoio” col gabinetto in comune. Ognuno aveva due stanze: cucina-sala, con lavabo e stufa a carbone e la camera da letto. Finché eravamo piccoli Mauro e io dormivamo nella stessa stanza dei miei genitori. Dopo il mio esordio in prima squadra, a 16 anni, mi fu riservato il divano della sala». Nel cortile, «c’era un garage per l’unica auto: la giardinetta di Verzetti, il padrone di casa». Il quartiere era in quello che oggi è il centro di Alessandria. Nel «canton di russ». Dove stavano i comunisti. Lui preferiva i preti: Don Filippini, Don Ceschia e Don Piero… 
Per un sacco di tempo, racconta, fu ovunque andasse «il più giovane di tutti». A partire, ovvio, dall’oratorio Don bosco: «Quando giunsi la prima volta ero molto piccolo e vidi che il grande cortile di terra battuta era diviso da una serie di alberi: da una parte giocavano i “grandi”, dall’altra i “piccoli”. Io, naturalmente, fui spedito nel secondo reparto. La cosa durò forse un paio di giorni». Poi non solo passò tra i grandi ma, come raccontano i vecchi amici, diventò oggetto quotidiano di calciomercato. Quando arrivava a partita già iniziata, infatti, «appena chiedeva”Con chi sto?”, il gioco si bloccava e avevano inizio le trattative per stabilire quanti giocatori dovevano essere trasferiti nell’altra squadra. Normalmente la sua valutazione era di due, tre o quattro elementi a seconda del valore…». Fece il provino all’Alessandria il giorno del patrono di Valle San Bartolomeo, paese dei nonni. Aveva il vestito della festa, con le scarpette lucide: l’allenatore «mi lanciò un pallone perché glielo restituissi una volta col destro, e poi con il sinistro, uno stop con i due piedi, uno con le due cosce, un colpo di testa. Poi mi salutò». Tre anni dopo esordiva in serie A. 
Unici lussi, certe domeniche al mare in Liguria, in treno e coi panini, grazie ai biglietti chilometrici di papà Teresio: «Guadagnava 45mila lire al mese. Un po’ mi vergognavo di prenderne, già coi primi premi partita, ottantamila». Cifre immensamente lontane, comunque, da quelle di oggi. E così sarebbe stato anche in seguito. Basti dire che la famiglia traslocò a Milano, dopo la cessione al Milan, in treno: «Non è che avessimo molta roba da portare». Destinazione, un appartamentino ancora di due stanze: «Stavolta, però, c’era anche il cucinino e un bagno tutto nostro». Il salto alla casa più grande sarebbe arrivato con la Coppa dei campioni. 
Indimenticabile il ricordo di Nereo Rocco. Un aneddoto fra i tanti, una finale di coppa: «Eravamo tesissimi. Allora non c’erano gli schemi di oggi ma un minimo di tattica… Lui, tranquillo. A un certo punto i vecchi della squadra gli si fecero intorno: “Paròn, come giochiamo?”. Lui, psicologo straordinario, radunò tutti e si rivolse a Cudicini, il portiere: “Allora, lo schema xè questo: ti, Fabio, te va in porta e tuti i altri fora”. Ci mettemmo tutti a ridere. Scendemmo in campo e vincemmo». 
Non mancano i ricordi di momenti brutti, del braccio di ferro col presidente Albino Buticchi, dei rapporti con Gianni Brera o Sandro Mazzola («in realtà erano buoni, con Brera, facemmo anche un vino insieme»), dell’amicizia con padre Eligio mai rinnegata nonostante qualche polemica velenosetta. Mancano, peccato, altri dettagli che chiariscono il personaggio. Come il primo sfizio. L’acquisto di una macchina. Una Porsche, una Lamborghini o una Ferrari? Macché: una Fiat 1300. Grigia. Che non desse troppo nell’occhio…