La Lettura, 6 dicembre 2015
Finanziamento, minacce, pubblicità e reclutamento: narcotrafficanti e terroristi usano le stesse tecniche
Nei quindici anni trascorsi a scrivere e a documentarmi sul traffico di droga e sul terrorismo, da cui sono nati libri come Il potere del cane e Il cartello, ho visto emergere una tendenza preoccupante. Il mondo del terrorismo e quello del narcotraffico si stanno sempre più sovrapponendo. Tra terrorismo e narcotraffico vi sono sempre state connessioni. La parola stessa «assassino» deriva da uno dei primi gruppi terroristi della storia, i cui uomini agivano sotto l’effetto dell’hashish. Dalla rivolta dei Boxer in Cina agli insorti filippini, ai nazionalisti algerini, ci sono stati gruppi di ribelli anti-coloniali che hanno combattuto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. E oggi ai kamikaze sono spesso date droghe per mantenerli calmi e non farli recedere dalle azioni in cui distruggono la loro vita e quella altrui.
Un collegamento ancora più importante tra questi mondi è però quello economico. Il traffico di droga è stato a lungo utilizzato per finanziare operazioni terroristiche. Il terrorismo ha bisogno di denaro – per comprare armi, pagare uomini, affittare case, viaggiare, controllare obiettivi e pianificare azioni – e le droghe sono il mezzo migliore per ottenerlo. Si trovano senza difficoltà e si rivendono con immensi profitti, tutti in contanti facilmente trasferibili. Le droghe equivalgono a denaro contante, ed essendo illegali, i profitti finiscono nelle zone oscure in cui il terrorismo prospera.
È facile che terroristi e trafficanti si incontrino, perché si muovono negli stessi ambiti e in molti casi hanno gli stessi nemici – le forze dell’ordine e i servizi di intelligence. A volte sono state le nostre politiche sulle droghe a portare questi gruppi l’uno nelle braccia macchiate di sangue dell’altro. Non è un caso che le aree del mondo in cui l’oppio e la cocaina crescono meglio siano anche territori problematici e spesso senza legge. Le droghe non hanno ideologie – danno pari opportunità di uccidere ai terroristi che sostengono. Terroristi sia di destra che di sinistra si sono serviti degli stupefacenti per finanziare le loro atrocità. Durante la guerra del Vietnam, mentre le forze americane combattevano i Vietcong, l’intelligence americana aiutava i trafficanti di eroina a trasportare la droga con gli aerei, per assicurarsi la loro fedeltà contro i comunisti. Negli anni Ottanta, l’opposizione americana al governo di sinistra in Nicaragua ha indotto l’amministrazione Reagan a collaborare con i trafficanti di cocaina messicani per finanziare i Contras anticomunisti, un gruppo marcatamente terroristico. Negli anni Novanta, i terroristi comunisti delle Farc in Colombia volevano che i trafficanti messicani pagassero la cocaina non in contanti, ma in armamenti.
I terroristi islamici, tra cui Al Qaeda e Isis, raccolgono fondi dal traffico di eroina nel sud dell’Asia. Da fonti in Libano e in Siria ho saputo che paradossalmente Hezbollah si finanzia vendendo hashish in Israele. Ma queste sono vecchie storie. Di recente si è verificata una tendenza ancora più inquietante – il mondo del terrorismo e quello del traffico di droga hanno cominciato ad adottare tattiche e metodi sempre più simili, imparando gli uni dagli altri. Sia i terroristi che i narcotrafficanti hanno bisogno di controllare il territorio – nel primo caso per avere un «santuario» in cui addestrare i combattenti e pianificare le operazioni, nel secondo per coltivare o importare le droghe. I trafficanti devono anche controllare le zone di confine attraverso le quali le droghe sono introdotte di contrabbando nei Paesi consumatori.
Il controllo del territorio richiede il controllo delle popolazioni locali, e per ottenerlo i cartelli messicani hanno adottato classici sistemi terroristici che combinano da un lato la mano aperta di elargizioni e opere pubbliche, dall’altro il pugno duro di intimidazioni, torture e omicidi. I gruppi terroristi hanno sempre ottenuto il sostegno delle popolazioni locali fornendo servizi che il governo centrale non può o non vuole dare, soprattutto nelle comunità sottosviluppate e rurali o nei sobborghi più poveri.
I boss dei cartelli messicani, come Joaquin «Chapo» Guzman sono diventati eroi locali e si sono guadagnati il sostegno e la protezione della gente facendo costruire cliniche, scuole, chiese, campi da gioco, acquedotti e organizzando grandi feste. Uno dei cartelli più feroci, Los Zetas, celebrava regolarmente la Festa della Mamma regalando a ogni famiglia del villaggio o Barrio una nuova lavatrice o un frigorifero. L’ex boss del Cartello del Golfo finanziava, anche dalla prigione, una festa per i bambini in varie città, organizzando sfilate carnevalesche e donando caramelle e gelati. Questa è la mano aperta.
Per quel che riguarda il pugno duro, i cartelli messicani hanno devastato interi quartieri e villaggi sospettati di sostenere il governo o cartelli rivali, hanno spopolato i villaggi lungo il confine per sistemarci i propri sostenitori. Hanno torturato e assassinato, esponendo spesso i corpi mutilati perché fossero di monito alla popolazione. Questa è una classica tecnica terroristica, adottata ora normalmente anche dai trafficanti di droga.
Un altro strumento necessario al terrorismo è la pubblicità. Spesso dimentichiamo che alla radice della parola terrorismo c’è il terrore. Lo scopo dei terroristi è diffondere la paura tra la popolazione e provocare una reazione sproporzionata da parte dei governi. Un atto terroristico non serve, se nessuno ne ha notizia. Per raggiungere questo scopo, i terroristi islamici contemporanei hanno utilizzato le tecniche dei cartelli messicani, soprattutto nell’uso dei social media.
Quando ho visto gli orribili video di Isis, che hanno giustamente sconvolto il mondo, non mi sembrava che ci fosse niente di nuovo. Nel fare ricerche per il mio romanzo Il cartello, avevo visto immagini simili diffuse fin dal 2005 dai cartelli messicani. Tutto è iniziato quando Los Zetas hanno mandato una squadra di quattro uomini armati a uccidere un trafficante rivale, Edgar Villareal, alias «Barbie» (in realtà un cittadino americano), nella località turistica di Acapulco. Con la collaborazione della polizia locale, Villareal ha catturato i quattro aspiranti killer, li ha portati in una stanza, ha videoregistrato le confessioni degli omicidi che avevano commesso per Los Zetas e li ha poi uccisi a colpi di pistola. Infine ha inviato la registrazione ai media. Quel video è diventato virale, e i cartelli si sono resi conto delle grandi potenzialità terroristiche dei social media. Avevano a disposizione un mezzo di comunicazione di massa non soggetto alla censura della stampa o al controllo governativo. Qualsiasi contenuto, per quanto violento, esplicito e orribile, poteva essere inviato a milioni di utenti premendo semplicemente un tasto. Dopo che i cartelli hanno cominciato a fare video, anche il terrorismo ha cominciato a sguazzare nell’anarchico mondo di internet. I primi videoclip di decapitazioni non sono stati fatti dal defunto e non rimpianto Jihadi John, ma dai cartelli messicani. Unire i tre obiettivi – intimidazione, propaganda e reclutamento – è però tipico del terrorismo. Come abbiamo detto, un atto terroristico è inutile se la gente non lo vede, e i video choc dei cartelli e dell’Isis terrorizzano milioni di persone, intimidendo le popolazioni locali e affermando la spietatezza e la potenza degli esecutori. Gli islamisti, in particolare, hanno usato sofisticati principi di produzione hollywoodiana per accentuare l’impatto dei loro video. La propaganda è un altro obiettivo comune a terroristi e trafficanti. Quasi tutti i videoclip richiedono alle vittime di confessare i loro «crimini», allo scopo di «giustificare» l’esecuzione che segue. I cartelli li utilizzano per affermare la loro superiorità morale sui rivali, gli islamisti per denunciare i loro motivi di risentimento e proclamare i loro programmi. La propaganda trova un pubblico ricettivo sui siti web e sui social media. I trafficanti hanno ucciso, torturato e smembrato blogger «rivali» che erano stati così temerari da pubblicare contro-informazioni e opinioni che volevano ridimensionare la loro propaganda.
Vediamo il terzo obiettivo – il reclutamento. Per quanto sia triste e assurdo, i videoclip di atrocità continuano a essere strumenti di reclutamento importanti ed efficaci sia per i terroristi che per i narcotrafficanti. Invece di suscitare repulsione, presso un certo pubblico riscuotono grande successo. A volte è solo una questione di sopravvivenza. In territori contesi, la gente è costretta a schierarsi, e molti preferiscono stare dalla parte di chi brandisce la spada o la motosega che decapita, piuttosto che dall’altra.
Un altro elemento di attrazione in questi video è la dimostrazione di potere. Per chi si vede impotente – in particolare i giovani senza un lavoro – nulla è più seducente di immagini che mostrano uomini che hanno potere di vita o di morte. Chi si considera senza futuro può scegliere la vita breve, ma eccitante di un narcotrafficante o di un combattente terrorista, anche sapendo che probabilmente non durerà molto.
Poi c’è il sadismo. Questi video esercitano una forte attrazione psico-sessuale su sociopatici e psicopatici che cercano opportunità per scatenare, anziché esorcizzare, i propri demoni. Jihadi John, ad esempio, amava ballare il tango con le sue vittime prima di torturarle, gli stupri di massa sono di uso comune tra i narcotrafficanti e l’Isis, e la violenza a volte surreale di entrambi i gruppi può essere solo attribuita al puro piacere di infliggere sofferenze.
Un altro recente punto di contatto tra terrorismo e traffico di stupefacenti riguarda la loro relazione con i principali media – stampa, radio e televisione. I terroristi hanno avuto a lungo un rapporto di amore-odio con i media. Da un lato ne hanno bisogno per pubblicizzare le loro atrocità e fare propaganda alla loro «causa»; dall’altro, l’immagine negativa che i media diffondono li disturba. Fino a tempi relativamente recenti, i trafficanti hanno cercato di evitare l’attenzione dei media o le sono stati indifferenti. Ma negli ultimi dieci anni, analogamente ai terroristi, hanno sentito l’esigenza di controllare non solo gli eventi, ma anche il modo in cui vengono narrati. Di conseguenza, i trafficanti messicani hanno fatto di tutto per controllare o bloccare le notizie dei giornali. Di solito, dopo un omicidio telefonano ai reporter in auto e dicono se è opportuno o no andare sulla scena del delitto. Hanno corrotto giornalisti, e quando questo non ha funzionato li hanno uccisi e torturati. In Messico, negli ultimi dieci anni, sono stati uccisi centinaia di giornalisti. (Ho dedicato il mio libro Il cartello a questi giornalisti, uomini e donne, veri eroi). I trafficanti hanno attaccato stazioni radiofoniche e televisive con mitragliatrici, granate e lanciarazzi, e hanno raggiunto il loro scopo. Ora infatti molti dei principali giornali messicani, come anche le televisioni e le radio, si rifiutano di dare notizie sul traffico di droga.
Allo stesso modo, i terroristi islamici hanno assalito giornalisti e chi raffigura il Profeta, e l’attacco a «Charlie Hebdo» è stato un tragico preludio ai recenti orribili eventi di Parigi. Senza dubbio la violenza contro i giornalisti da parte di trafficanti e terroristi ha avuto un effetto dissuasivo sulle inchieste nei loro confronti.
Come il mondo della droga e quello del terrorismo si sono assimilati, così hanno fatto necessariamente le forze anti-droga e anti-terrorismo. Quando i terroristi sono divenuti più violenti, si è passati dalla strategia sostanzialmente difensiva della contro-insorgenza, che cercava di proteggere e far collaborare le popolazioni locali, a metodi più aggressivi, che hanno come priorità la localizzazione e l’eliminazione dei terroristi, soprattutto dei loro leader. La lotta al traffico degli stupefacenti ha seguito questo esempio, e a fronte di trafficanti che si comportano da terroristi, ha adottato metodi meno difensivi – come sequestrare la droga – e più aggressivi, in cui si cerca di individuare i trafficanti e i loro leader allo scopo di catturarli, ma più spesso di ucciderli.
Le tecniche dell’intelligence sono pressoché identiche, e non c’è quasi differenza nei metodi impiegati per individuare i terroristi e i trafficanti. In entrambi i casi sono usate le intercettazioni dei telefoni cellulari, l’analisi dei computer e tecniche «rafforzate» di interrogatorio. In entrambi i casi sono state create forze speciali: dato che trafficanti e terroristi sono diventati più sofisticati e meglio armati, l’uso di forze militari speciali è diventato comune. Squadre speciali dotate di tecnologie molto sofisticate riescono a localizzare ed eliminare i capi terroristi e i trafficanti di droga con operazioni segrete. Notoriamente, per scovare ed eliminare i terroristi si utilizzano i droni. Meno noto è il fatto che i droni sono stati usati anche per individuare i trafficanti di droga e guidare operazioni in cui vengono spesso uccisi, e anche se questi droni non sono ancora dotati di missili, presto lo saranno.
I terroristi sono sempre stati trafficanti di droga. Ora i trafficanti sono terroristi. I loro mondi sono diventati un solo mondo.