Corriere della Sera, 7 dicembre 2015
L’unico finito in galera per il terremoto dell’Aquila è Livio Bearzi, il preside del Convitto
Stavolta l’intero Friuli è agitato da toccanti scosse di compassione. Appelli pubblici, messe dedicate, raccolte fondi. A suo modo è anche questa l’onda lunga di un altro terremoto, quello dell’Aquila, sei anni dopo. Dal polverone giudiziario delle 200 inchieste, che sembravano intenzionate a riempire le galere di colpevoli, emerge un unico nome, l’unico a ritrovarsi col pigiama a righe. Non è un politico, non sta nella protezione civile, non è comunque un addetto ai lavori: è un preside. Il detenuto che sta scatenando i sentimenti migliori della sua terra si chiama Livio Bearzi, è friulano di Cividale, 58 anni, sposato, tre figli a carico. Da un mese sta rinchiuso in una cella, a Udine. Condannato a 4 anni con sentenza definitiva della Cassazione. Il suo reato: omicidio colposo di tre studenti e lesioni ad altri due, per «aver omesso di valutare l’enorme pericolo incombente» sul convitto Domenico Cotugno, l’istituto aquilano che dirigeva e che dopo 200 anni di trascurata attività venne giù come castello di sabbia, assieme a tutto il resto. In italiano corrente, il preside non comprese il pericolo del terremoto e non si premurò di chiudere il convitto, facendo uscire i ragazzi. Lui come tanti altri che non chiusero nulla, all’Aquila. Ospedali, palazzi del governo, dimore private. Così il procuratore dell’Aquila, Fausto Cardella, parlando in un convegno a Zugliano, proprio nei pressi di Udine: «Non mi sembra né elegante né corretto commentare una sentenza. Posso soltanto esprimere la mia solidarietà per il dramma di una persona che, oltre al fardello per gli eventi di quella maledetta notte, deve sopportare il peso della detenzione. Un uomo di scuola che perde i propri studenti è come il capitano che vede affondare i marinai. Comprendo il dramma. Mi sembra di aver capito che a Bearzi sia attribuita una colpa generica per aver vietato alle persone (comunque minorenni) di uscire dal convitto. Una decisione presa sicuramente in buona fede, anche perché si sa che in caso di terremoto può essere meglio non uscire. La fatalità, purtroppo, ha fatto accadere ciò che nessuno avrebbe mai pensato». E pazienza se la stessa Cassazione ha proprio recentemente assolto i responsabili della Commissione grandi rischi, i famosi Barberi, Boschi e compagnia, cui si riconosce una volta per tutte l’impossibilità di prevedere i terremoti. Suona vagamente paradossale, ma è una storia molto italiana, dopo tutto: gli esperti non potevano prevedere il terremoto, un preside paga sostanzialmente per non averlo previsto.
Quell’edificio stava lì dall’Ottocento, lui arrivò un anno prima del sisma, ma a quanto pare toccava proprio a lui capire la gravità della situazione e chiudere il convitto. Per la giustizia non fa una grande differenza che dopo i primi tempi di direzione lo stesso preside si fosse recato in Provincia – proprietaria dell’edificio – per segnalare parecchie rughe e chiedere interventi: gli fu risposto che non c’erano rischi e comunque prima o poi avrebbero dato una bella rinfrescata. Se ne tornasse tranquillo nel suo ufficio, intanto. Così rassicurato, dopo qualche mese il preside fece addirittura scendere la famiglia all’Aquila, moglie e tre ragazzi, facendoli alloggiare al suo fianco proprio dentro al Convitto, dove per disgrazia furono sorpresi dal terremoto, per miracolo senza gravi conseguenze.
In carcere, l’unico detenuto d’Italia per il terremoto d’Abruzzo dimostra una fiera dignità. La famiglia, i parlamentari, il suo avvocato Stefano Buonocore, tutti quelli che l’hanno incontrato raccontano la filosofia mansueta di un uomo a schiena dritta. «Questo processo – confida – è il secondo dei miei problemi. Il primo lo sto superando con tanta sofferenza. Quei ragazzi erano i miei ragazzi. Un peso troppo grande. Ma posso giurare: non li avrei certo esposti al pericolo, loro e la mia stessa famiglia, se qualcuno mi avesse chiarito la situazione. Io sono solo un preside». Un preside ovviamente sospeso dai pubblici uffici, dunque disoccupato e con gravose difficoltà pratiche. E siccome le disgrazie si insinuano sempre da tutte le fessure, il professor Bearzi si porta in spalla pure il peso schiacciante di una moglie malata, del male carogna che fatichiamo a pronunciare. Dire che questa famiglia ha seri problemi è un garbato eufemismo. I presidi di tutta Italia si stanno autotassando per aiutare il collega ed è nato un comitato per chiedere la grazia.
Da parte sua, il prof aggiunge un ulteriore pezzo incredibile al misterioso puzzle personale: «Nel ’76 mi sono preso in testa il nostro terremoto friulano. Neanche a dirlo, stavo ancora dentro a un convitto scolastico. Allora, da studente. Anche quella volta ne venni fuori per miracolo». Sorride. Riesce pure a metterci una dose omeopatica di autoironia: «Mi dicono che con i terremoti il Signore mi ha mandato dei segnali precisi, per indurmi a credere. Sinceramente, me ne bastava uno…». Illeso nel ’76, la sensazione è che all’Aquila abbia salvato la pelle, ma perso tutto il resto.