Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2015
L’Italia importa più acciaio di quanto produce
Non c’è linea del Piave che tenga nell’acciaio italiano. Lo straniero sta passando, soprattutto nel 2016. Lo certificano i dati di Federacciai. Nei primi otto mesi dell’anno le importazioni di laminati piani in Italia sono aumentate del 25 per cento. Nel periodo analizzato i trasformatori italiani hanno acquistato più di otto milioni di tonnellate di acciaio straniero. La metà proviene dall’area dell’euro, un’altra metà (con un incremento di oltre il 50 per cento da gennaio ad agosto) dai paesi extra Ue. Praticamente s’importa più di quanto si produce: nei primi nove mesi dell’anno i piani prodotti in Italia sono stati pari a 7,7 milioni di tonnellate, contro i circa 11 milioni del 2012.
Come paventato dai principali operatori due anni fa, il mercato ha già dato un responso al venire meno dell’Ilva come player storico sul mercato italiano dei piani. E questa risposta arriva dall’estero: player europei, ma anche operatori ucraini, russi, cinesi e iraniani, come confermano i dati Istat, sono corsi in questi mesi a colmare lo spazio libero lasciato dal gigante tarantino, costretto ai frequenti “stop and go” per la manutenzione degli impianti.
Un grande cliente di Ilva come Marcegaglia ha affermato di essere stato tra i principali responsabili della recente esplosione (l’Italia è sempre stato un paese compratore, ma mai a questi livelli) delle importazioni in Italia, confermando che lo snodo è tutto lì, tra i (pochi) coils rimasti sui piazzali a Taranto. Tra le pieghe dell’ultimo bilancio di Marcegaglia si legge tra l’altro anche tutta la difficoltà, nella gestione del magazzino e di conseguenza degli oneri finanziari, che può comportare il cambio in corsa delle nuove forniture. Il presidente del gruppo mantovano, Antonio Marcegaglia, ha dichiarato recentemente al Sole 24 ore l’intenzione di tornare «al battente originario» delle forniture Ilva. Ma solo se saranno garantite «qualità, gamma e continuità».
Non sarà facile. Le difficoltà dell’Ilva coincidono con una fase di estrema difficoltà del mercato dell’acciaio globale. Secondo le ultime rilevazioni di Worldsteel la produzione nei primi dieci dell’anno è in flessione del 2,5 per cento, penalizzata soprattutto dalle scelte di rallentamento dei grandi produttori asiatici. Tutto il mondo vive una fase di sovracapacità produttiva e la Cina (da sola vale 675 milioni di tonnellate, vale a dire la metà della produzione complessiva di acciaio nel mondo) sta riversando i suoi prodotti sui mercati esteri irritando tutta la siderurgia europea per pratiche giudicate in larga parte commercialmente scorrette. Ricostruire un clima di fiducia e una continuità di rapporti con i fornitori è arduo con una concorrenza così aggressiva, anche e soprattutto per un operatore come Ilva, che in questi anni è passato attraverso cambiamenti dell’assetto proprietario, stravolgimenti nelle linee di governo strategico, continue sostituzioni della squadra manageriale.
Se e quando il gigante tarantino si sveglierà dal suo sonno, troverà un mercato che non è più quello che conosceva Emilio Riva all’inizio degli anni Novanta. L’Italia è ormai fuori dalla top ten dei produttori mondiali di acciaio (dominata dai già citati colossi asiatici) ed è ormai un mercato regionale, che cerca di riposizionarsi sulle specialties per non rimanere schiacciata dalla logica dei grandi numeri. Anche una eventuale cessione dell’Ilva sarà inevitabilmente un’operazione da leggere in questa chiave: c’è chi (all’estero) spera possa risolversi in un alleggerimento della capacità produttiva installata nel mercato europeo. Per l’Italia manifatturiera (e non solo per l’acciaio) sarebbe però una sconfitta pesante, soprattutto in un momento storico come quello attuale, in cui la filiera dei consumatori a valle, a partire dall’industria legata all’automotive, sta mostrando i primi segnali di ripresa.