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 2015  dicembre 06 Domenica calendario

I tribunali hanno finito i braccialetti elettronici e Daccò resta in carcere

C’è un tizio che dopo quattro anni di galera non può andare agli arresti domiciliari – che gli erano stati concessi a condizione che portasse i braccialetti elettronici – perché il tribunale di Milano ha finito i braccialetti elettronici. Il personaggio è quasi noto, perciò se ne parla e ne scriviamo, ma il problema riguarda da tempo un sacco di detenuti anche meno noti, e da anni, perciò accettiamo volentieri il ragionier Pierangelo Daccò come pretesto. Lui è conosciuto in primo luogo perché «amico» dell’ex presidente della Regione Roberto Formigoni e perché al centro di due indagini milanesi (il crac del San Raffaele e i fondi neri della Maugeri) per le quali è l’unico finito in carcere – attenzione – preventivo, alias custodia cautelare. È dentro dal tardo novembre 2011 ma non ha ancora una condanna definitiva, un classico italiano. Sequenza: 10 anni per il crac del San Raffaele (2012) poi ridotti a 9 in appello (2013) poi la Cassazione che annulla parte della sentenza (2014) perché in contraddizione con due coimputati assolti per la stessa accusa, ma il nuovo appello (2015) conferma la condanna e a metà di questo mese si ri-attende la Cassazione, chissà. La milionesima istanza di scarcerazione dei difensori Massimo Krogh e Paolo Veneziani – per una persona, ripetiamo, in custodia cautelare da 4 anni – era finalmente stata accolta dalla Corte di appello di Milano, dopo parere favorevole – mai senza – anche della Procura: arresti domiciliari ma monitorati attimo per attimo col braccialetto elettronico. Che poi è una cavigliera: si applica appunto alla caviglia, ed composto da una centralina installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la condanna; un device riceve il segnale dalla cavigliera e lancia un allarme in caso di manomissioni o allontanamento non previsto del detenuto. Dettaglio: non c’è. L’aggeggio non c’è, la disponibilità è terminata e c’è una specie di lista d’attesa, a Milano come altrove. A Napoli, i penalisti hanno annunciato un pacchetto di scioperi ad hoc. In effetti c’è da immaginarsi come debba sentirsi una persona che aspetti la liberazione da quattro anni – istanza dopo istanza, rifiuto dopo rifiuto – sinché gli giunga finalmente la sospiratissima concessione dei domiciliari: lui che prepara le sue cose, avverte a casa, anzi no, il braccialetto non c’è.
È un discreto schifo, ma non è che non si sapesse che la telenovela dei braccialetti è in replica da anni. In Italia questi apparecchi esisterebbero – in teoria – dalla fine degli anni Novanta a imitazione di quanto in altri Paesi è prassi consolidata: e non servono tanto a far circolare liberamente chi l’indossa, ma a tenerlo detenuto in casa propria senza l’angoscia reciproca (e costosa) dei controlli. In Italia questi aggeggi hanno incontrato un problema in primo luogo culturale: certa demagogia sicuritaria ha sempre teso a considerarli una diminutio rispetto al carcere che invece è concepito come una punizione o un impedimento fisico a delinquere, diversamente da come dice la Costituzione. Dopo l’ex Guardasigilli Angelino Alfano, alla fine del 2011, era tornata alla carica anche la ministra della Giustizia Paola Severino nel cercare di scongiurare il sovraffollamento delle carceri. Tra mille disguidi e resistenze, i braccialetti hanno incominciato a essere usati abbondantemente solo a margine del decreto svuotacarceri del 2013, ma i numeri sui braccialetti restano piuttosto confusi: qualcuno sostiene che siano tecnologicamente già obsoleti, altri – Telecom – che i software sono stati aggiornati. Di certo, ogni tanto, i braccialetti finiscono. Telecom assicura che siano circa 2000 (per un costo annuo di 5500 euro l’uno, fanno in tutto circa 11 milioni) ma sul numero di quelli effettivamente disponibili c’è un certo mistero. Si sa che ricapita spesso la vergognosa telenovela: un giudice dispone i domiciliari condizionati al controllo elettronico ma poi ci si accorge che il controllo elettronico non si può fare, e dietrofront, prego, torni o resti dentro. Praticamente si è creato uno nuovo status giuridico non previsto da nessuna carta: ossia il carcerato in attesa di braccialetto, con cioè l’aggravio di sapere che resterà in galera pur avendo diritto a uscire. A gestire i braccialetti è Telecom, che non di rado risponde – direttamente ai legali – come già fece nel gennaio scorso a Palermo: «Vi informiamo che la richiesta potrà essere evasa solo a fronte del recupero per fine misura di un dispositivo in esercizio. Resta inteso che tutte e richieste saranno evase in funzione dell’ordine cronologico di arrivo a codesta centrale operativa». Una comunicazione formale. Per un detenuto, una formale pugnalata.