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 2015  dicembre 06 Domenica calendario

«Ho smesso di fumare, ma non vedo l’ora di ricominciare». Mimmo Calopresti si racconta

Affiorano ricordi lontanissimi come se fosse ieri: “A metà degli anni 70 Giuliano Ferrara era arrivato a Torino per ristabilire l’ordine, mettere le cose a posto, spiegare a quei quattro zozzoni movimentisti che avevano osato discutere l’autorità del partito, chi tenesse realmente il bastone del comando. Ferrara non aveva paura di scontrarsi con i compagni o di prendersi responsabilità e menava, menava veramente. Io ero dall’altra parte, dalla parte opposta e nonostante dessi e restituissi botte senza problemi e il Pci non mi piacesse per niente, verso la sacralità dell’operaio, il suo farsi il culo e la sua disciplina opposta al nostro disordine, non riuscivo a non provare rispetto. Oggi la politica mi ha rotto le palle. Voto ancora, ma spero presto di avere la forza di non farlo più”. Trent’anni dopo, a un passo dai 61: “Ho smesso di fumare, ma non vedo l’ora di ricominciare” Mimmo Calopresti può ripercorrere il film della sua vita al tavolo di un bar con più agio di quanto mai potrebbero mostrarne i protagonisti del film con cui è tornato al cinema. In Uno per tutti, passato, amicizia, promesse e patto fondativo di tre amici per la pelle non reggono il peso del tempo. Non sempre i figli somigliano ai padri, non sempre la morte si lava con un colpo di spugna. In una Trieste cupa, Calopresti ha riadattato il romanzo che Gaetano Savatteri scrisse per Sellerio, recuperato uno dei protagonisti di Anime Nere, Fabrizio Ferracane, offerto a Giorgio Panariello, qui poliziotto, il primo ruolo drammatico della sua vita. Di Uno per tutti, prodotto da Gianluca Curti per Minerva e da Rai Cinema, Calopresti è felice: “Abbiamo finito il lavoro in sole 4 settimane, non facevo un film per la sala da 7 anni e volevo fare proprio questo.” Perché voleva fare proprio questo film?
Perché il libro di Savatteri è splendido e perché volevo raccontare quanto sia complicata la vita delle persone e come da un momento all’altro, anche quando sembra impossibile pensarlo, possa persino peggiorare. Il lavoro, le corse affannate, il rapporto inesistente con i figli, la bassissima qualità delle esistenze chi ci siamo disegnati addosso. È il movimento sfrenato senza direzione che ci porta a morire.
Ne è sicuro?
Sicurissimo. Il problema non è il futuro da sogno con cui ci rincoglioniscono a forza di slogan e di promesse, il problema è la realtà. È ciò che sei, a tutti i livelli. Che tu sia cameriere o dirigente d’azienda. Quando mai con questa politica e con questo sistema economico, la vita può essere veramente di tua proprietà?
Quando era ragazzo le capitava di pensarlo?
Che la vita fosse mia e basta? Certo. Il mondo mitico e romantico dei miei vent’anni era reale.
Lei abitò nella città fabbrica per eccellenza.
Risaliti dalla Calabria a Torino, Emilio e Jolanda, mio padre e mia madre, si integrarono perfettamente. Lui alla Fiat, lei come casalinga che si sbatteva tra orli e rammendi.
E i cartelli “Non si affitta ai meridionali” di tanta memorialistica sul tema dell’immigrazione?
Balle, esagerazioni, stronzate a cui non ho mai creduto. Il mio professore di Sociologia Industriale la chiamava non a torto “propaganda di basso livello”. Aveva ragione. Lo scontro tra i giovani del sud che non avevano niente da perdere e la città avvenne ad altri livelli, di sicuro non sul piano del razzismo o dell’accoglienza. Che fu generosa, indiscriminata, totale.
A quali livelli avvenne allora?
Sul piano dell’estremismo politico e della lotta armata. Dominava l’insopportabile delirio dei parolai che erano stupidi e pericolosi. Dall’altra lato della barricata c’era il Pci. Il partito aveva questa patetica pretesa di spiegarti come vivere e come comportarti. Pulsava l’ossessione della disciplina. Il bigottismo come bussola.
Lei militò in Lotta continua per il comunismo. Ha impiegato tanto a liberarsi della politica?
Quando ho capito che si trattava soltanto di una banda di stronzi che mi faceva perdere un sacco di tempo ho iniziato ad allontanarmi. Durante le riunioni scendevo al bar a percuotere il flipper. Era meglio andare ai concerti, uscire, vivere. Il gruppo era una specie di prigione.
E i costumi sessuali? Un galera anche quelli?
No. Tutti stavano insieme a tutti e i costumi sessuali erano molto liberi, ma non esibiti per ovvie ragioni di ipocrisia.
Prima parlava di estremismo. Ha corso il rischio anche lei?
Forse, ma è più probabile che mi piacesse troppo andare ai concerti e far tardi la sera per impelagarmi in una simile cazzata. Confuso ero, non lo nego. Vedevo passare Zavattini con il basco calato sulla testa e andavo ad ascoltare Gianni Rondolino che insegnava alla facoltà di Lettere e si era inventato il Festival dei giovani. Ovviamente lo preferivo a Guido Aristarco, il durissimo insegnante di cinema custode dell’ortodossia comunista. Una belva. Uno che quando si incazzava metteva un po’ paura.
E le lezioni di Gianni Rondolino le sono servite?
Le lezioni e i film. In facoltà ne proiettavano uno diverso tutti i giorni. Ogni tanto si apre un cassetto della memoria e a tradimento esce fuori qualcosa. Per Uno per tutti, ad esempio, mi è capitato di ripensare a Le petit soldat di Godard con questo ragazzotto che sta in mezzo ai casini e non sa come uscirne. Sa chi è un vero cinéphile? Giorgio Panariello. Ha visto almeno il doppio dei miei film e non scherzo. Mi piace Giorgio. Ha un’empatia non costruita. Autenticamente popolare.
Pur essendo lontanissimo da qualunque sospetto di condivisione o amicizia, lei disse parole anomale, quasi gentili su Berlusconi.
È, ma forse è meglio dire è stato, un uomo di teatro. Non riconoscergli un’eccezionalità storica è un errore. Ho conosciuto molto bene e amato alla follia Fabrizio De André che con lui, Paolo Villaggio e Fedele Confalonieri aveva condiviso l’esperienza sulle navi da crociera. Secondo Fabrizio, Berlusconi era un animatore straordinario. Travolgeva i vecchietti, faceva casino, coinvolgeva chiunque.
Per come abbiamo imparato a conoscerlo è impossibile stupirsi.
Poi un giorno Berlusconi si ruppe i coglioni e riunì il gruppo: “Ragazzi, Fabrizio, da oggi per me basta navi, basta serate e basta viaggi. Avete bisogno di qualcuno che vi organizzi la vita. Vi farò da manager”. In poco tempo, mi raccontò De André, iniziarono a guadagnare il doppio.
Cos’altro le raccontava De André di quei viaggi in nave?
Che appena iniziava a intonare: “La morte verrà all’improvviso” istantaneamente, il pubblico maschile delle prime file correva a toccarsi le palle. Villaggio saliva sul palco di corsa: “Perdonatelo, è depresso”. Erano una banda vera, quelli lì. Si divertivano.
La prima persona che le ha dato un’occasione senza chiuderle la porta in faccia?
Nanni Moretti. Mi ero trasferito a Roma licenziandomi dalla scuola in cui insegnavo. Ero di ruolo e più di un amico pensava che mi fossi bevuto il cervello. Ero reduce da qualche avventuroso documentario torinese e con l’idea di fare un film sull’incontro tra un ex terrorista e la sua vittima, ne parlai con Heidrun Schleef. Avevo scritto un primo film sul tema, ma non era quello giusto. Con Heidrun e Francesco Bruni invece trovammo la chiave.

La seconda volta, liberamente ispirato a Colpo alla nuca di Sergio Lenci, vinse il premio Solinas. 

Ma Moretti – lo devo dire perché è vero e perché altrimenti Nanni si incazza – comprò il film in tempi non sospetti. E fu l’unico a crederci. Eravamo stati da tanti produttori, a iniziare da Vittorio Cecchi Gori. Vittorio era stato chiarissimo: “Il copione non è male, ma davvero volete fare un film sul terrorismo? È un tema così triste, la gente vuole ridere”.
Moretti la pensò diversamente.
Ma non avvenne subito. Servì tempo. Non succedeva niente, ’sto cazzo di film non partiva e io cominciai a pensare di ritornare a vivere a Torino. Poi squillò il telefono: Era Angelo Barbagallo, il socio di Nanni: “Mimmo, ho letto la sceneggiatura, la posso far vedere anche a Nanni?”. L’avevo conosciuto già, Moretti. Quando preparava La Cosa, il documentario sulla svolta della Bolognina vista dai militanti delle sezioni del Pci.
Come si trovò con Moretti?
Nella sua follia, Nanni è una persona simpaticissima, forse una delle più simpatiche che ci siano in giro. Ovviamente può essere anche di un’antipatia totale.
Qual è il discrimine?
Il rapporto di Nanni con la vita è orientato dal suo buonumore. È completamente lunatico e ha una genialità che si esprime soprattutto dentro il suo cinema.
Fuori?
Fuori è un altro mondo perché Nanni, con il resto del mondo, ha qualche difficoltà a scendere a patti. Gioca a fare l’insopportabile e come diceva in quel film, si troverà sempre d’accordo con una minoranza.
Di Moretti è rimasto amico?
Gli sono amico, anche se Nanni difficilmente riesce a vivere qualcosa, qualsiasi cosa, con tranquillità. Se con lui dici la cosa sbagliata, magari inconsapevolmente, si offende. Ogni tanto lo invito a rilassarsi, ma è uno sforzo inutile.
Vi frequentate?
Adesso meno. Lo vidi però il giorno in cui salì sul palco di una Piazza Navona semideserta. Passai di lì per caso, l’atmosfera era tristissima, Moretti camminava avanti e indietro. Nervosissimo: “Guarda questi” diceva.
E poi salì: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”.
Perché – ed è una cosa che ammiro – Nanni non si ferma davanti a niente. Nella vita ho fatto casino anch’io, ma qualche volta mi sono fermato e ho dovuto chinare la testa.
Le è dispiaciuto? Ne ha sofferto?
Se vieni da una famiglia come la mia, chinare la testa, lavorare e sbattersi sono cose normali.
Se avesse avuto i soldi?
E chi lo sa? Non ho potuto giocare al ricco annoiato che fa il cinema perché non sa cos’altro fare.
Ne La seconda volta, nel ruolo dell’ex terrorista, c’era anche Valeria Bruni Tedeschi.
Siamo stati insieme molti anni. È la più grande attrice d’Europa. Ha un curioso rapporto con il cinema. È il luogo della libertà che non ha nella vita, si può permettere cose che fuori, nel mondo reale, non può neanche sognare.
E la sua libertà, Calopresti?
Stamattina vicino alla Piramide ho visto un blocco della polizia che mi ha ricordato esattamente il ’78, i giorni del sequestro Moro e l’epoca del terrorismo. Vorrebbero chiuderci tutti in casa, ma ritirarsi nella cuccia è sempre una trappola. Prendo la metropolitana, mi sposto, vado a teatro, al cinema, nei bar. Anche dopo Parigi, soprattutto dopo Parigi, perché la nostra libertà è preziosa e dobbiamo difenderla, dai terroristi, dai musulmani che offendono l’Islam, dal padrone dell’appartamento che ti rompe i coglioni, dal vicino di casa che ti scassa il cazzo senza ragione alcuna.
Per difenderla, pare di capire, bisogna lottare. Lei è litigioso?
Non particolarmente.
E sul set? Ha mai litigato?
Sul set de La seconda volta, feci una litigata selvaggia con Valeria e con un’altra attrice. A un certo punto, esasperato, mandai tutti a casa. Si precipitò da me Angelo Barbagallo, il produttore. Era terreo: “Mimmo, ma che fai? Abbiamo un programma da rispettare qui”. Allora intervenne Nanni che di Angelo era il socio. Moretti fu salomonico: “Se ti hanno scocciato, fai bene a fermarti”. E sì che Moretti sul set litiga spesso.
Come mai?
Perché Moretti ha bisogno di scontrarsi. Ha una rabbia che non so da dove cazzo gli venga. Sa come metterti in difficoltà, ma è una specie di sfida: “Se vinci contro di me – sembra dire – puoi farcela anche da solo, essere libero, emanciparti”.
Altrimenti?
Altrimenti meriti di perdere e di andare a fare in culo.
I suoi amici, Calopresti?
Marco Risi, una persona che adoro. E poi Marco Mathieu. Un giornalista de La Repubblica con cui ho fatto un film su Socrates. Con Marco condivido tante passioni, dalla musica, al calcio, alla semplicità.
La semplicità è importante?
Non sopporto quelli, anche tra i miei colleghi, che se la tirano. Ma la vogliamo smettere di considerare il cinema un mondo a parte? Lei non hai idea di quanto mi faccia incazzare avvertire una certa arietta di superiorità. Mi manda in bestia. E penso a Monicelli. Nei suoi ultimi anni di vita mangiavamo spesso insieme. Era di una saggezza Mario, di un umorismo e di un’umiltà che non ha corrispettivi nei contemporanei.
Registi che le piacciono?
Francesco Munzi. Lavora con il piglio del documentarista. Il suo Anime nere è un capolavoro. Quando ho visto Fabrizio Ferracane nel suo film, non ho visto solo un attore. Ho visto mio padre. Ho visto mio nonno. Ho visto qualcosa di ancestrale.
Chi l’ha delusa nella vita?
Quelli di sinistra. Il potere li ha cambiati, li ha trasformati, li ha resi schiavi. E loro, ben felici, si sono fatti mettere in catene.