Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2015
Le politiche di Renzi e Paodan e i prigionieri della sindrome di Galileo
Ci sono due modi di giudicare una politica: confrontare quel che succede oggi con quel che succedeva ieri, oppure confrontare quel che succede oggi con quel che sarebbe successo se quella politica non fosse stata messa in atto. Io ritengo che il giudizio sul governo attuale, che molto ha fatto sul terreno del mercato del lavoro, cambi drasticamente a seconda del criterio adottato. Se il confronto è con quel che succedeva prima, il bilancio è ben magro, se non negativo. Nei quasi 2 anni che vanno dal bimestre gennaio-febbraio 2014 (governo Letta) al bimestre settembre-ottobre 2015 l’occupazione è aumentata di sole 287mila unità, mentre la percentuale di occupati dipendenti precari (contratti a termine), che stando alle intenzioni dichiarate doveva essere abbattuta, è salita dal 13.1% al 14.6% (massimo storico per l’Italia, ma valore perfettamente in linea con la media europea). Se poi guardiamo al brevissimo periodo, ossia alle tendenze degli ultimi 2 mesi, il quadro è ancor meno rassicurante: l’occupazione totale ha perso 84mila posti di lavoro, e la quota di precari è ancora salita.
Se restiamo su questo terreno, curiosamente prediletto da Renzi e dai suoi paladini, è inevitabile che chi vuole difendere le politiche governative sia costretto ad arrampicarsi sugli specchi, e finisca prigioniero della sindrome di Galileo.
Che cos’è la sindrome di Galileo?
È la disperata ricerca del maggior numero possibile di zero-virgola incoraggianti, allo scopo di poterli mettere in fila tutti quanti e finalmente esclamare, di questa disgraziata locomotiva dell’economia italiana, “eppur si muove!”.
Ma il confronto con ieri non è l’unico racconto possibile. Se si vogliono mettere in evidenza le buone ragioni di questo governo, che pure esistono accanto a quelle meno buone, non è questa la strada. Forse, dovremmo avere più coraggio, o semplicemente essere più disincantati. È inutile e fuorviante cercare nell’andamento dell’occupazione i segni del successo o dell’insuccesso delle politiche messe in atto negli ultimi due anni.
La vera domanda è un’altra: senza quelle politiche, come sarebbero andate le cose?
Quando si giudicano i nostri asfittici segnali di ripresa, quel che non dovremmo mai dimenticare è l’impressionante cocktail di terapie cui il paziente-Italia è stato sottoposto negli ultimi due anni: sul piano internazionale, il triplice stimolo prezzo del petrolio, svalutazione dell’euro, quantitative easing; sul piano interno il triplice stimolo decreto Poletti (che ha liberalizzato i contratti a termine), decontribuzione, contratto a tutele crescenti. Nel giro di pochi mesi le vele dell’economia italiana sono state gonfiate da almeno 6 (3+3) misure ad alto impatto, e ciononostante “il cavallo non beve”. Questo è il punto, questo è il nodo su cui riflettere.
Nessuno è in grado di valutare con precisione gli effetti di questo insieme di misure sul Pil e sull’occupazione, ma gli analisti sono d’accordo nell’indicare in almeno 1 punto di Pil (c’è chi dice 2) l’impatto dei tre stimoli esterni. Quanto ai 3 stimoli interni, ossia alle riforme del mercato del lavoro, difficile pensare che le misure messe in atto, e in particolare la decontribuzione fino a 8.060 euro l’anno, non abbiano avuto un impatto positivo sull’occupazione e sul Pil. L’obiezione, semmai, potrebbe essere che l’impatto degli sgravi per chi assume potrebbe essersi concentrato tutto sul 2015, dato il carattere una tantum della misura adottata.
E allora? Allora, forse è venuto il momento di dirci la verità, al di là di ogni retorica e di ogni propaganda. E la verità, temo, non è che le politiche messe in atto dal duo Renzi-Padoan non siano state ragionevoli ed efficaci, bensì che esse si sono innestate su un trend strutturale di riduzione della base produttiva che, a quanto pare, non è ancora terminato. Senza i 3 stimoli esterni e i 3 stimoli interni, molto probabilmente, il Pil avrebbe perso quest’anno qualcosa come 1 o 2 punti percentuali, e l’occupazione, anziché crescere poco, si sarebbe ulteriormente contratta. Da questo punto di vista i modesti aumenti del Pil (+0.7%) e dell’occupazione (circa 300mila posti di lavoro) registrati nel 2015 andrebbero visti come un successo, non come uno scacco.
Se un’osservazione critica si può avanzare, sulle politiche di questi due anni, non è che hanno prodotto scarsi risultati, ma che hanno sottovalutato la ripidità della china che dovevano risalire, ovvero la gravità del male che affligge l’Italia e, in misura meno drammatica, l’Europa nel suo insieme. Al di là degli incitamenti e delle dichiarazioni di ottimismo, probabilmente sincere, quel che resta intatta è un’altra sindrome italiana, qualche volta attribuita a Tremonti ma in realtà ben piantata nella mentalità della classe dirigente del nostro Paese: la credenza che la salvezza verrà dall’esterno, quando la crisi sarà passata e l’economia mondiale avrà ripreso a girare. È questa credenza, forse, che spiega certe timidezze riformiste, come la rinuncia a una spending review incisiva, o il rinvio della riduzione dell’imposta societaria.
Temo che una simile fiducia nella marea della ripresa, che avrebbe il potere di sollevare tutte le barche, sia sostanzialmente infondata, in quanto poggia, a sua volta, su una grave sottovalutazione del ritardo dell’Italia rispetto alle altre economie avanzate. Negli ultimi vent’anni il tasso di crescita dell’Italia è sempre stato inferiore a quello delle altre società avanzate di circa 0.7-0.8 punti di Pil. Nulla fa pensare che quel divario non ci sia più: nel 2015 l’Italia crescerà dello 0.7 o dello 0.8%, giusto la metà di quanto, in media, cresceranno gli altri Paesi europei.