La Stampa, 6 dicembre 2015
Don Corrado Lorefice, nuovo vescovo di Palermo, si presenta leggendo l’articolo 3 della Costituzione invece del Vangelo
E sì che era arrivato a Palermo guidando la sua vecchia Ford Fusion insieme con i genitori, un nugolo di parenti e i suoi soliti abiti da prete di periferia. E sì che aveva già fatto sapere che per tutti è e resterà don Corrado, niente Eccellenza e lustri da prelato, «datemi del tu». Ma nessuno si sarebbe aspettato che il nuovo vescovo si presentasse alla città leggendo testualmente l’articolo 3 della Costituzione – non il Vangelo, non una testimonianza di santi – e indicando la legge fondamentale della Repubblica «come bussola» del suo operato.
Le citazioni
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», legge don Corrado Lorefice, 53 anni, il prete dei poveri traghettato per volontà di papa Francesco dalla sua parrocchia di Modica alla guida della diocesi che fu di Ernesto Ruffini e di Salvatore Pappalardo. «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», continua sul palco eretto davanti al municipio della città trattenendo a stento i singhiozzi. Già, perché il nuovo vescovo piange, mentre la piazza si commuove con lui, mentre sciami di scout lo sommergono di applausi, mentre politici e rappresentanti delle istituzioni si guardano negli occhi con lo stesso gioioso stupore: «Mai visto un vescovo che si insedia citando la Costituzione». «Altro che prete di strada, è un politico raffinato». Lui prima si affaccia alla folla con un «Che ci faccio io qui? È da un po’ di giorni che me lo chiedo», e poi per tre volte si commuove: prima parlando dei bambini, poi leggendo l’articolo 3, poi definendosi nuovo cittadino di Palermo. Piange, s’interrompe, stringe i denti e poi ricomincia, al fianco il sindaco Orlando, in piazza ragazzi e famiglie che lo aspettano per accompagnarlo in Cattedrale per la solenne investitura, a piedi, come lui ha voluto, senza cortei.
Una città diversa
Come il tempo a Palermo corre veloce, a volte. Quanto sembra lontana la Chiesa di monsignor Salvatore Cassisa, il vescovo di Monreale amico dei potenti collusi. Quanto lontana quella negazionista di Ernesto Ruffini, il porporato per il quale la mafia non esisteva, «una marca di sapone», come disse in un’intervista, «un’invenzione dei comunisti per denigrare la Dc», come rispose al segretario di Paolo VI che gli riferiva la preoccupazione del papa dopo la strage di Ciaculli. Ma come sembrano lontani anche gli ultimi vent’anni di Chiesa a Palermo dopo Pappalardo, la Chiesa della diplomazia e della liturgia di Salvatore De Giorgi prima e di Paolo Romeo poi, il quale ora passa le consegne a «don Corrado». Com’è cambiata la città. Sembra che sia passato un secolo da quando don Puglisi, umile prete di periferia peregrinava inascoltato tra le istituzioni di Palermo per chiedere attenzione sui disperati di Brancaccio, sui bimbi preda della mafia. Ora don Puglisi è beato, unico martire dell’antimafia della storia, e la sua Chiesa – la Chiesa della povertà e dell’ascolto – è quella che ha vinto.
Omaggio a Puglisi
Non a caso Lorefice, come primo atto, è andato a rendere omaggio sulla sua tomba. In piazza, è il suo esempio che addita: «Ci ha fatto capire che cosa significa testimoniare il Vangelo». Già, l’accoglienza. Se il sindaco Leoluca Orlando cita San Benedetto il Moro, il co-patrono di Palermo, «nero e figlio di schiavi», il nuovo vescovo parla di Palermo come «culla di civiltà e spazio umano felicemente contaminato da popoli diversi, un ponte tra le culture araba, ebraica e cristiana», una «grande capitale europea spesso ferita dalla violenza e dal sopruso». Più tardi, in Cattedrale, parla di mafia. Rende omaggio alle vittime, quelle eccellenti e i ragazzi delle scorte, cita pure Peppino Impastato, quello che fino a ieri era il sovversivo, il comunista, quello che per i boss era un terrorista saltato su una bomba. Ridà senso all’antimafia che in Sicilia ha avverato spesso la profezia sciasciana del professionismo. Dice no «alla violenza, al clientelismo, al cinismo, ai ragazzi costretti a partire da questa terra».