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 2015  dicembre 06 Domenica calendario

Parla il papà del killer di San Bernardino

Sono le sette di sera ed è calato il buio, sulla comunità residenziale di Corona dove vive Raheel Farook, fratello del killer di San Bernardino. Busso alla porta di casa su Forum Way, ma nessuno risponde, anche se le luci dentro sono accese. Dalla strada si avvicina un signore anziano che spinge una bambina sul triciclo, e mi chiede: «Posso aiutarla?». Certo che può. Lei è il padre di Syed, vero? «Sì». Possiamo parlare di suo figlio? «No, guardi, l’Fbi mi ha già interrogato per sette ore. C’è un’inchiesta criminale aperta, e se parlo rischio la prigione». Ma parliamo solo di suo figlio, non dell’inchiesta. Com’era, come persona? «Un angelo. Bravo, ubbidiente, studioso. Forse un po’ troppo timido, conservatore, e fissato contro Israele».
Lei quando è arrivato dal Pakistan?
«Nel 1973. Sono andato a Chicago, ho preso la laurea breve in ingegneria meccanica, e poi mi sono messo a lavorare duro per costruire una famiglia. Ho guidato anche i camion: settimane lontano da casa, e la schiena spezzata, per garantire ai miei figli un’istruzione e la possibilità di avere successo».
Come mai vi chiamate tutti Syed?
«Perché all’ospedale dell’Illinois dove sono nati i miei bambini erano ignoranti e hanno confuso i nomi. In realtà si chiamano Raheel e Rizwan. Io sono Syed».
Perché dice che suo figlio era troppo conservatore?
«Pensate che da adolescente non andava alle feste dei compagni di classe, perché diceva che un buon musulmano può vedere ballare solo sua moglie. Io vengo dalla città, sono un liberal, scherzavo su tutto come fanno i pachistani e gli suggerivo di sciogliersi, ma non c’era nulla da fare».
Dicono che sua moglie Rafia ha divorziato perché lei beveva e la picchiava. Così è andata a vivere con Rizwan, mentre lei è venuto qui con Raheel. E vero?
«Sono tutte frottole. Rizwan era il cocco di mamma, e lei è molto religiosa come lui. Si sono coalizzati contro di me. Una volta avemmo una disputa sulla figura storica di Gesù: mio figlio urlò che ero un miscredente e decise che il matrimonio con mia moglie doveva finire. Avevo comprato una casa bellissima, dove in giardino avevo piantato venti alberi da frutta. L’hanno venduta e hanno distrutto la mia famiglia».
Perché Rizwan ha fatto quello che ha fatto?
«Non lo so. Mi dispero e non capisco. Aveva tutto: guadagnava 70.000 dollari all’anno, più 20.000 di straordinari, una casa, una figlia di sei mesi, faceva il master per guadagnare di più. Era appassionato di meccanica, come me. Aveva studiato ingegneria ambientale perché là c’era il lavoro, ma il suo divertimento erano le auto. Nel tempo libero faceva il meccanico, dentro al suo garage. Non lo so, non riesco a darmi pace. Forse se fossi stato a casa lo avrei scoperto e fermato».
Lei non si era accorto che accumulava armi?
«Una volta ho visto che aveva una pistola, e mi arrabbiai: in 45 anni di Stati Uniti – gli urlai – non ho mai avuto un’arma. Lui scrollò le spalle e rispose: peggio per te».
Parlavate mai del terrorismo, dell’Isis?
«Certo. E chi non ne parla oggi? Lui diceva che condivideva l’ideologia di Al Baghdadi per creare lo Stato islamico, ed era fissato con Israele».
Che vuol dire?
«Io gli ripetevo sempre: stai calmo, abbi pazienza, fra due anni Israele non esisterà più. La geopolitica sta cambiando: la Russia, la Cina, anche l’America, nessuno vuole più gli ebrei laggiù. Li riporteranno in Ucraina. A cosa serve combattere? Lo abbiamo già fatto e abbiamo perso. Israele non si batte con le armi, ma con la politica. Lui però niente, era fissato».
Fissato su cosa?
«Ce l’aveva con Israele».
Aveva contatti con terroristi all’estero?
«Non lo so. Ma di questi tempi chi può dirlo, con internet e tutta quella tecnologia?».
Qualcuno dice che a radicalizzare suo figlio sia stata la moglie.
«Forse, non lo so. Ma sa che io non l’ho mai vista? Neppure tutta coperta col burqa ce la mostrava. So soltanto che era nata in Pakistan e viveva in Arabia Saudita, ma non le ho mai parlato. Non voleva neppure vedere i suoi cognati. Dissi a mio figlio che così distruggevano la nostra famiglia, ma a lui non importava nulla».
Quando vi siete separati?
«A maggio scorso lui è andato con la moglie, la figlia e la madre a Redlands, e a settembre io sono venuto qui a vivere con Raheel».
Quando vi siete visti l’ultima volta?
«È passato a trovarci in un paio di occasioni. Gli ho detto che doveva finire il master per guadagnare di più, perché ora aveva la responsabilità di sua figlia».
Intanto la nipotina, cuginetta di questa bambina di sei mesi rimasta orfana, si è addormentata sul triciclo. La nuora chiama Syed per andare a cena. Lo saluto e gli auguro di ritrovare la pace: «No, non succederà. Ti spacchi la schiena per allevare un figlio, e poi lo perdi così. Come ti riprendi da una tragedia simile? Ho 67 anni e la mia vita è finita qui».