la Repubblica, 6 dicembre 2015
La Buenos Aires di Romagnoli
A Buenos Aires dove rivivono il colore e il buio del passato
Una sera, in un teatro italiano, assisto a una rappresentazione dal titolo Mar del Plata, tratta da un libro di Claudio Fava. Racconta la storia di una squadra di rugby argentina un cui giocatore, appena diciassettenne, viene assassinato dalla polizia del regime. Gli altri vanno in campo e decidono un minuto di silenzio che diventano due, cinque, dieci. È una rivolta muta, un atto di sedizione intollerabile. Uno dopo l’altro i rugbisti vengono fatti sparire: torturati e uccisi nelle segrete stanze dove questo accadeva mentre si giocava il Mundial del ’78. A finire il campionato del Plata fu la squadra giovanile, più l’unico sopravvissuto, Raul, che racconta la storia con il senso di colpa dei superstiti.
Quando si chiude il sipario non sono più in una città italiana, ma a Buenos Aires, che pure a una città italiana assomiglia, per le architetture, per i nomi da immigrati piemontesi o abruzzesi sulle targhe ai portoni e perfino nei ballottaggi presidenziali.
Sono davanti a un palazzo bianco, in una zona residenziale. È circondato da agenti di polizia, hanno perfino alzato un telone che lo copre fino al secondo piano, proteggendolo dalle “bombette rosse”, palloncini pieni di vernice che macchierebbero di finto sangue la facciata. È un anniversario del golpe, sono venuto lì con ragazzi che potrebbero essere miei figli e invece sono figli di fantasmi, quando gli è andata bene. I loro genitori sono spariti come i rugbisti di “Mar del Plata”. A chi era nato da poco è capitato spesso di essere contrabbandato in un’altra famiglia, formata da complici degli assassini, crescere chiamando padre e madre i propri nemici. A questi altri è toccata la maledizione della verità, la benedizione della rabbia. Sanno che i loro genitori sono morti, che sono precipitati dal cielo, sprofondati in mare. E che uno degli organizzatori di quei voli abita al secondo piano del palazzo bianco: il contrammiraglio Basilio Pertinè, professione impunito. Vanno di porta in porta a svelare i crimini a chi non sapeva o di non sapere faceva finta.
C’è una cosa che non dimenticherò mai di quella giornata. La sineddoche di Buenos Aires è una fotografia. La teneva nel portafoglio un ragazzo (ora uomo) di nome Tomas. È nato il 20 agosto del 1976.
Suo padre scomparve il successivo 14 settembre, la madre il 18. Non aveva un mese ancora ed era già orfano. Di loro conserva: una cintura, una gelatiera, vecchi dischi. E una fotografia. In quell’immagine stropicciata un uomo e una donna abbracciati ballano il tango. Lei ha un abito scuro, calze nere, le scarpe con il tacco a ricciolo sono verdi e fanno rumore attraverso i decenni, sono i rintocchi della vita che non passa, che non viene, che non ha giustizia. Lui ha una camicia bianca, pantaloni larghi, scarpe lucide che deve aver spazzolato per bene nel pomeriggio, prima di uscire. Il pavimento su cui ballano è quello di un bar a San Telmo, lo riconosci facilmente perché è ricoperto da gusci di noccioline. Arrivano a mucchi con ogni boccale di birra. È pratica abituale buttare a terra quel che non si mangia. Verrà raccolto soltanto all’alba. È un metodo per misurare il tempo a strati. A occhio, è già passata la mezzanotte. I due ballerini, non ancora marito e moglie, sono arrivati da zone diverse della città. Lui dal barrio Palermo, con l’autobus. Lei è stata accompagnata in auto dalla sorella, che la ospita nel retro della portineria in cui lavora, alla Recoleta. Dalla vita si aspettano cose che stanno per succedere: una notte memorabile, un amore che spazza la scena, una vita ulteriore. E altre che non succederanno mai: tutto il resto. Lei ha una luce laterale nello sguardo, quella di chi pensa ad un altrove, a un dopo, ha scelto di concedersi. Lui sembra confuso, come spesso sono gli uomini sulle soglie decisive, perfino quando hanno sognato, sperato di varcarle. Tango, rumba, bolero, sarà un vortice. Schiacceranno i gusci sotto i tacchi fino a ridurli in poltiglie. Il flash di quella fotografia non li accecherà quanto il proposito che li attirerà infine fuori da quel caffè. La strada di ciotoli li accompagnerà cantando mentre scendono. Le pensioni a San Telmo non hanno né finestre né domande, accolgono qualunque forma di desiderio. In Amore 77 Julio Cortazar scrive: «E dopo aver fatto tutto quel che fanno, si alzano, si lavano, si danno il talco, si profumano, si pettinano, si vestono e così progressivamente, ridiventano quello che non sono».
È in quei momenti che comincia a vivere Tomas, in quei momenti che i suoi genitori cominciano a morire. Condividendo passioni, quella reciproca e quella comune: per l’altro, per la libertà. Non c’è nulla che possa salvarti o uccidere quanto una passione.
Buenos Aires è una città di orizzonti e cimiteri. Di colori: la casa rosada, los panuelos blancos, i conventillos arcobaleno alla Boca. Poi tutto sfuma al nero, nel pozzo di un passato personale e collettivo altrettanto dubbio e profondo. Il passato è un sopravvissuto, che ha diritto a proseguire la storia.