la Repubblica, 6 dicembre 2015
Il caso del pittore cinquecentesco Andrea Schiavone
VENEZIA Il pittore Andrea Meldola (1510/15-1563), passato alla storia come Andrea Schiavone perché era nato a Zara, in Dalmazia, ovvero nel possedimento veneziano della “Schiavonia”, costituisce per la storia della pittura veneta un caso tanto sfuggente ed enigmatico, quanto affascinante. Egli fu senza dubbio tra i protagonisti di quei decenni centrali del ’500 in cui l’arte veneta, nel solco della svolta impressa alla politica della Repubblica di San Marco dal dogato di Andrea Gritti(1523-1538), ruppe il suo splendido isolamento per misurarsi con gli spettacolari sviluppi della Maniera tosco- romana e delle sue ramificate propaggini padane, avviando un rinnovamento che dava piena visibilità al programma politico grittiano di accreditare Venezia come “nuova Roma”. L’eloquente manifesto urbanistico di tale svolta fu realizzato dal toscano Jacopo Sansovino, riparato a Venezia nel 1527 fuggendo da una Roma in preda al Sacco, che trasformò l’intera area marciana nel maestoso “Foro” della “nuova Roma”. Sansovino si assicurò una duratura egemonia sull’architettura e la scultura veneta, formando con Tiziano, divenuto fin dai primi anni ’30 pittore ufficiale dell’imperatore, e con l’altro esule tosco-romano, l’influente Pietro Aretino, un triumvirato capace di condizionare le principali commissioni pubbliche della Serenissima.
Andrea Schiavone, che esordisce sulla scena lagunare verso la metà degli anni ’30 con un linguaggio dirompente, in cui si coniugano la sofisticata eleganza delle figure allungate di Parmigianino con una pennellata fluida e velocissima che abbozza ed evoca le figure più che definirle, emerge in questa fase aurorale ma incandescente della nascita di una Maniera veneta: sono anni in cui il dialogo inclusivo tra i due poli, di cui è eloquente esempio Giuseppe Porta, l’allievo condotto da Salviati a Venezia, che invece di tornarsene si trapianta in laguna ottenendo successo con la sua pittura che meticcia “disegno toscano” e “colore veneto”, genera una tensione che esaspera le differenze, producendo orgogliose rivendicazioni da una parte e dall’altra.
Esaltato e denigrato dagli opposti schieramenti, il ruolo di Schiavone era rimasto finora avvolto in una nebbia solo in parte diradata dagli studi, culminati nella pur eccellente monografia (1980) dell’americano Francis L. Richardson. Come e dove si formò? Fu un protagonista o un epigono? Dobbiamo dar retta a Vasari, che ne deplora la pittura abbozzata, «a macchia, senza esser finita punto»? O ad Aretino, che in una lettera del 1548 lo lusingava, elogiando la sua «prestezza saputa» e riferendogli lo stupore di Tiziano nel vedere come egli sapeva «tirare giuso le bozze de le istorie»? Per rispondere a questi interrogativi e a quelli, ad essi connessi, di una definzione più certa del catalogo e della cronologia delle opere di Schiavone occorreva una grande mostra, che radunasse il maggior numero possibile di sue opere per confrontarle tra loro e con quelle dei suoi maestri e compagni di strada, da Parmigianino a Tiziano, da Salviati a Vasari, da Tintoretto a Sustris. Una mostra preceduta da anni di studio e di revisione di tutte le fonti e la bibliografia sull’argomento, ponendo le basi per un passo avanti decisivo nella definizione di un tornante cruciale della pittura veneta del Cinquecento. Questa non facile impresa, ideata ed esemplarmente curata da Enrico Maria Dal Pozzolo e Lionello Puppi, attorniati da un folto gruppo di specialisti, è divenuta realtà grazie a Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia, che non si è lasciata intimorire dalle difficoltà, ben sapendo che rassegne come questa, capaci di mettere in scena l’essenza stessa del «fare storia dell’arte», non sono un pascolo per soli addetti ai lavori, ma hanno una spettacolarità capace di appassionare il grande pubblico ( Splendori del Rinascimento a Venezia. Schiavone tra Parmigianino, Tintoretto e Tiziano, Venezia, Museo Correr, fino al 10 aprile).
La pittura “a macchia” rientrava t nella tradizione veneziana e trovò i suoi più alti interpreti in Tiziano e Tintoretto, alimentando un filone pittorico ancora molto vivace nei due secoli successivi, tanto da giustificare l’accanimento con cui gli agenti delle corti europee dettero la caccia alle opere di Schiavone ancora sul mercato. Se non altro per questo, il dalmata merita un posto di rilievo nel panorama della Maniera veneta, perché la sua presenza dovette agire da catalizzatore, incoraggiando Tintoretto, e forse lo stesso Tiziano, a imboccare la strada del “macchiato splendore” senza riserve. Privo d’inventiva, tanto da indurre Richardson a coniare per le sue opere il concetto di “copia creativa”, il giudizio sulla qualità della sua pittura risente dell’inesorabile perdita di tante sue decorazioni a fresco e del degrado in cui ci sono giunti tanti dei suoi dipinti. Forse, però, va rovesciato il teorema vasariano, perché le sezioni che più impressionano nella mostra sono quelle dedicate ai disegni e alle incisioni dell’artista. La macchia, la “prestezza saputa”, la morbidezza del tocco si esaltano sul foglio da disegno e sulle lastre incise, su cui Andrea lavorava a più riprese, con interventi volti a correggere e ad aggiornare l’immagine, rafforzandone l’effetto di forma in continuo divenire. Del resto, Vasari raccolse alcuni splendidi esemplari di Schiavone nella sua raccolta privata ed è egli stesso a narrarci che commissionò al dalmata una tela con la Battaglia di Tunisi, per farne dono al suo colto mecenate Ottaviano de’ Medici. L’ideologia campanilistica che funge da armatura ideologica delle sue Vite lo induceva ad affermare che Schiavone faceva buoni quadri solo “per disgrazia”, ma la sua tempra di artista avvezzo a dipingere facciate di “chiaroscuro” sapeva valutare che bell’effetto possa produrre una «macchia», se ben assestata.