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 2015  dicembre 06 Domenica calendario

Tracy Chapman e quel famoso concerto per Nelson Mandela degli anni Ottanta

ROMA.
«Tutto procede, è già un sollievo di questi tempi», mormora Tracy Chapman. Non è cambiata. Gli stessi capelli afro appena impolverati dagli anni (cinquantuno) annodati in dreadlock, jeans, felpa nera, orecchini appena visibili ai lobi, il dolce, timido sorriso di quando, sconosciuta, scosse le coscienze cantando al settantesimo compleanno di Nelson Mandela “non lo sai, parlare di una rivoluzione suona come un sussurro / mentre fanno la coda per il sussidio/ piangendo alla porta degli eserciti della salvezza”. Una piccola rivoluzione fu anche la sua performance voce e chitarra, con un messaggio inequivocabile, diretto, tagliente. La musica in quegli anni (giugno 1988) era altro, presuntuosa, patinata, iperarrangiata e prodotta. «Ricordo ogni istante di quel concerto, un’emozione incredibile», racconta Tracy. «Io, una sconosciuta di Cleveland, chiamata a esibirmi con il gotha del rock al Wembley Stadium (in mondovisione per seicento milioni di spettatori). E per una causa che mi stava a cuore, a sostegno del movimento anti-Apartheid. Il mio disco d’esordio era appena stato pubblicato, non credo qualcuno tra il pubblico sapesse chi fossi. Non sapevano neanche a che punto dello show inserirmi. Poi ebbero un problema con il set di Stevie Wonder, non riuscirono a mettere a punto la strumentazione, così vennero a chiamarmi e mi dissero che avrei addirittura avuto l’opportunità di eseguire un secondo brano. Qualcuno disse in bocca al lupo. Non feci in tempo a rispondere né ad andare nel panico, avevano annunciato il mio nome».
Oggi il mercato non è più così generoso con gli artisti che non si concedono a media e tabloid, per i timidi rivoluzionari come Tracy Chapman, pur se con quattro Grammy in vetrina. Sono sette anni che l’artista non pubblica un disco (da Our Bright Future) e quello appena uscito è un Greatest Hits con diciassette successi (Fast Car, Talkin’bout a revolution, Telling Stories, Crossroads, Give Me One Reason) più una cover inedita registrata nel corso di una delle ultime puntate del Late Show with David Letterman, una versione di Stand By Me di Ben E. King che va dritta al cuore (solo voce e chitarra, s’intende). «Sono molto orgogliosa del nuovo disco. È solo una compilation dirà lei, ma per me è la buona occasione per riflettere sugli ultimi venticinque anni della mia vita – ventisette a essere esatti», sospira. «La scelta dei brani è stata un processo quasi ossessivo, ha scatenato una sorta di récherche.
Mi sono chiusa per giorni e giorni negli archivi a spulciare tra vecchie foto. Ogni canzone ha rievocato ricordi e sentimenti che la quotidianità aveva sepolto. Ero in questo mood quando David Letterman mi ha invitato – mi sono sentita onorata, così ho pensato di regalargli un evergreen che significa tanto per me e per milioni di persone».
Non è mai scesa a patti con la popolarità e le regole non scritte ma rigidissime dello star system. Quando avrebbe potuto trarne profitto e insediarsi nell’Olimpo, si è ritirata a San Francisco e non avrebbe mai fatto parola della sua vita sentimentale se non fosse stata Alice Walker, l’autrice de Il colore viola, a svelare (sobriamente) la loro love story. «Vivo a San Francisco dall’inizio degli anni Novanta, e questo non ha nulla a che fare con l’amore, con la carriera o col fatto che artisticamente ho frenato i miei entusiasmi» precisa. «Ho scelto San Francisco perché non mi andava di stare a New York o Los Angeles, è una città che mi assomiglia, quieta senza essere provinciale. Ho anteposto la qualità della vita al lavoro. Continuo a scrivere canzoni, faccio un disco ogni cinque o sei anni, una buona media per i miei ritmi. Una cosa però è vera, dopo tanti anni volevo farla finita con i tour. La vita on the road, che molti trovano esaltante, era per me oltremodo logorante. Volevo fermarmi in un posto e restarci, prendermi una pausa, che poi è diventata lunga, e ancora più lunga. Vivere in un posto normale come una persona normale è essenziale per il mio equilibrio. Non che gli anni di frenetica attività siano stati un incubo. Una vecchia foto che ho ritrovato mi ha toccato il cuore. Ci siamo io e il produttore David Kershenbaum davanti alla consolle dello studio di registrazione. Stavamo riascoltando le prime incisioni dell’album d’esordio. Sono rimasta sorpresa a vedere l’espressione felice che avevo stampata in faccia, io che non lascio mai trapelare le emozioni. La mia vita era cambiata d’un colpo: la prima volta a Los Angeles, la prima volta in uno studio di registrazione. Oggi mi sembra incredibile che una timida ragazza di Cleveland in guerra col mondo, letteralmente terrorizzata da quell’ambiente, fosse in quel momento così felice».
Potere di una voce e una chitarra; le grandi canzoni si esaltano nella semplicità. Lei lo aveva scoperto al college, quando si esibiva nei club in fulminanti set acustici. «Non avevo una band, e non sognavo di averne una neanche quando firmai il primo contratto discografico», assicura. «Le parole “arrangiamento” e “produzione” mi spaventavano a morte (e ancora mi creano disagio). Per la verità dei tentativi di cambiare il mio modo di pensare c’erano stati. Inizialmente mi misero in studio con un produttore qualsiasi che non sapeva niente di me. Mi trovai con una schiera di musicisti eccellenti: chitarrista, bassista, batterista, organista e un mare di sintetizzatori. Lì, in mezzo alla stanza, sovrastata da quel muro del suono stentavo a credere che la voce fosse mia. Troppo di tutto. A loro invece piacque tantissimo, mi chiesero di andare avanti. Se queste sono le vostre intenzioni non se ne fa niente, dissi. Fu a quel punto che, per salvare capra e cavoli, decisero di affidarmi a David Kershenbaum».
In molte canzoni predica contro l’ingiustizia sociale, ha deprecato il sessismo nell’industria discografica, ha appoggiato una miriade di iniziative benefiche, eppure non si considera un’attivista. «Ho semplicemente usato le canzoni per appoggiare le cause che ritengo giuste», minimizza. «Fondamentalmente mi considero una cantautrice. So che la musica ha una ruolo importante nella vita delle persone ed è stata capace di infiammare gli animi negli anni della lotta per i diritti civili negli Usa. Una canzone viene eletta spontaneamente a colonna sonora di un momento importante, come è successo per A Change Is Gonna Come – la riascoltiamo con commozione ogni volta che le vicende degli afroamericani s’incrociano con la storia… fino all’elezione di Obama, che mi ha reso felice e orgogliosa, un momento importantissimo nella storia del paese e degli afroamericani. Da una prospettiva squisitamente femminile sarei stata ugualmente felice se l’avesse spuntata Hillary Clinton. Avrebbe fatto meglio? Non lo so. È chiaro che chiunque nell’America post-Bush avrebbe trovato delle difficoltà in quella posizione. I più acerrimi nemici di Obama sono all’interno del governo, coloro che non hanno ancora digerito l’idea di un presidente nero, quelli che hanno ostacolato le riforme per dimostrare il fallimento della sua politica. Credo che Hillary avrebbe incontrato gli stessi problemi, sono ancora molti quelli che non vedono di buon occhio una donna alla guida del paese. Quanto a Obama avrebbe potuto far meglio soprattutto per le classi svantaggiate se non avesse incontrato un’opposizione così feroce».
Oggi la cosa che più la preoccupa è lo stato di salute del pianeta. «Se non incominciamo a prendercene cura nessuno avrà la possibilità di continuarci a vivere. Ne stiamo pagando le conseguenze in California, siccità e alluvioni fuori controllo, danni ingenti all’agricoltura – a questo punto non sono solo campanelli d’allarme ma un perenne stato d’allerta. L’altro incubo è la diseguaglianza economica e sociale che affligge il mondo e genera violenza – il terrorismo ne è figlio. Siamo a un punto, anche nel mondo occidentale, in cui le famiglie non riescono più a sostentarsi. Dobbiamo renderci conto che finché tutti non avranno accesso ai fondamentali mezzi di sussistenza – casa, lavoro, cibo, istruzione – la situazione resterà esplosiva».