la Repubblica, 6 dicembre 2015
Martin Scorsese racconta la sua infanzia e il suo cinema
PARIGI
Bambino, malaticcio, guardava il mondo dalla finestra. Crescendo, ha dato una nuova finestra al mondo: il suo cinema. Merito di quell’esilio infantile dietro i vetri nel Lower East Side, miscuglio di minoranze italo-americane – siciliani, napoletani, calabresi – che sarebbe diventato protagonista di molti suoi film. Ma merito anche di tutto il miscuglio di cinema che, negli anni Cinquanta, aveva potuto assorbire, in bianco e nero, attraverso il televisore nel chiuso di quel terzo piano nella Manhattan dei poveri. O, nei momenti più felici, a colori, accompagnato dal padre nelle sale di quartiere: «Il cinema m’ha rovesciato addosso il mondo senza confini. Era fatto di film americani, inglesi, italiani, giapponesi, indiani. In grande, era quel che vedevo ogni giorno sotto casa, da cui non uscivo quasi mai per i miei problemi d’asma. Vivevo in un quartiere sovraffollato, un’Italia in miniatura, con i blocks che definivano una singolare geografia urbana: ciascuno era l’alveare di immigrati provenienti dalla stessa regione. È da quel concentrato di neo-patria che ho appreso il conflitto tra i valori morali del cattolicesimo cui m’avevano educato i genitori e le leggi della mafia siciliana».
Così comincia Martin Scorsese. Strada e cinema. Cinema e strada mescolati insieme. Minuscolo, canuto animaletto di cartoon, giacchina blu e pantaloni grigi, sguardo vispo ingigantito dagli occhialoni da miope, settantatre anni, il regista, in Francia per due omaggi – a Parigi la grande mostra alla Cinémathèque Française fino al 14 febbraio, a Lione il Prix Lumière – ripercorre per Repubblica le sue personali Mean Streets, scoppiando subito in una bella risata: è quando gli si evoca Roberto Benigni prostrato ai suoi piedi, prima di prenderlo in braccio, alla premiazione a Cannes ‘98 per La vita è bella. Eloquio a mitraglia, come sempre, e riflessioni secche, precise. Una quieta boxe.
Il suo cinema lascia di rado New York. Sempre ripresa a altezza d’immigrato, nessuna turistica skyline: è la New York dei “goodfellas”, sono i clan... «Combinando due film italiani, I vitelloni di Fellini e Accattone di Pasolini, si ha un’idea della mia prima formazione: ambiente di miseria e vita di banda, fino al degrado dell’alcol e della droga. Unica forza di coesione, in un’esistenza subito dilapidata, la chiesa e la famiglia, molto allargata: non solo genitori-figli, ma anche nonni, zie, zii e svariati cugini. Un grande abbraccio protettivo che trasmette e fa condividere i valori d’origine. La famiglia, di sangue e acquisita, non ha mai smesso di rivivere nel mio cinema, a partire da Italianamerican, il documentario che nel 1974 ho girato sui miei genitori. Vi è entrata anche fisicamente: per tre decenni, mia madre Catherine è stata nei miei film la “mamma” italiana, con mio padre Charles e altri familiari in ruoli minori».
Molti attori o registi dicono che, senza il cinema, sarebbero diventati comuni delinquenti. Lei, prima del cinema, si era già dato due vie: prete o pittore. Cosa lo ha fatto “deviare”?
«Venni espulso, due volte. La prima, a quattordici anni: ero seminarista al Cathedral College, nell’Upper West Side, e fui rispedito a casa dopo nemmeno un anno perché indisciplinato, incline alle cotte, ostile all’idea di celibato. Senza esito anche un altro tentativo, all’università gesuita di Fordham. Di questo fervore religioso rimane però un film di fine studi, incompiuto,
Jerusalem, Jerusalem, proprio sul dilemma tra vocazione religiosa e fantasmi sessuali. Doveva aprire una trilogia, forse completata da Chi sta bussando alla mia porta? e Mean Streets vent’anni dopo. Anche L’ultima tentazione di Cristo è stata una risposta alle mie inquietudini giovanili».
Effettivamente nei suoi film ricorre l’icona del crocifisso: è un prete mancato?
«Sono evidentemente affascinato dall’immagine-simbolo del sacrificio, che ho introdotto in film del tutto profani come Chi sta bussando alla mia porta?, Mean Streets, Taxi Driver, Toro scatenato, Cape Fear o The Departed. Credo di avere una bella familiarità con la figura di Gesù. I primi ricordi di Cristo crocifisso risalgono alla prima infanzia: le sculture della cattedrale Saint-Patrick. Ma al di là dell’iconografia, alla base della maggior parte dei miei film c’è una concatenazione di princìpi cristiani: peccato, espiazione, perdono. Afflitti da un profondo senso di colpa, i miei personaggi cercano la redenzione: David Carradine in America 1929: sterminateli senza pietà, il primo film hollywoodiano da me girato nel 1972, grazie a quell’immenso talent scout di Roger Corman. Oppure Harvey Keitel in Mean Streets o Robert De Niro in Toro scatenato. Tutti si ritrovano nella posizione della vittima sacrificale, del martire crocifisso, come Gesù. L’assoluzione, però, nei miei film, non viene da Dio, ma da noi stessi. Il problema è tutto lì. Il mio cinema non è un rosario con happy end a fine giro».
Anche la pittura è sacerdozio. Lei continua a esercitarla in ogni film, con gli storyboard che ne programmano l’esatto svolgimento: la mostra parigina ne offre un bel campionario.
«Da bambino me ne stavo in casa a disegnare. Non potevo uscire, fare sport. Gli storyboard erano il mio sport, il mio cinema. L’unico kolossal ch’io abbia mai concepito, Eternal City, l’ho disegnato a dieci anni, con magalomania infantile: un peplum stile Studios, produzione MarSco, cioè io, e cast hollywoodiano, Marlon Brando, Virginia Mayo, Robert Taylor... Da quando avevo sette anni ho cominciato a riempire la stanza di storyboard, facevo illustrazioni elementari di western di serie B. Oppure creavo le mie personali risposte alle serie tv di mezz’ora, tipo Suspense Theatre: non avevo ancora ben chiaro che un film si fa con la cinepresa».
Anche una volta scoperta la cinepresa, la matita ha continuato a precedere e guidare i ciak. Perché?
«È un’abitudine che non ho mai perso. Gli storyboard, la previsione di ogni piano, di ogni singola sequenza, sono il film immaginato come sarà: la sua architettura, ancora schematica, una specie di folioscope.
Volevo essere un artista, amo i colori e la matita è la mia vera “assistente” nella regia. La mina, grassa, la sua pressione sulla carta mi indica già il modo in cui riprendere quella scena. Perciò, sul set, tengo sott’occhio i miei disegni, gli originali: le fotocopie non mi comunicherebbero nulla. Torno sempre ai disegni quando devo risvegliare l’idea che avevo al momento di quel tratto a matita».
C’è uno storyboard stupefacente dove la matita si fa cinefila: il round conclusivo di “Toro scatenato”, che adatta al ring la doccia di “Psycho”. Sangue e suspense: Hitch con i guantoni?
«Hitchcock non è il mio regista del cuore, gli preferisco Ford, Welles, Visconti. Ma ho divorato tutti i suoi film, prendendo dove potevo, come in Fuori orario in cui un piano è tolto di peso da Marnie, o nello spot per uno spumante spagnolo, The Key to Reserva, dove mi son divertito a replicare il concerto-brivido di L’uomo che sapeva troppo. In Toro scatenato, però, sono partito da Hitchcock per usarlo a rovescio: il montaggio, per cui Thelma Schoonmaker ha vinto il suo primo Oscar, non segue il modello (che suggerisce, senza mostrarla, la violenza del corpo a corpo) ma, al contrario, dà via libera al sangue, al corpo martire dei due pugili. Un’esplosione di violenza, anche qui, ma sottolineata e sublimata dall’alternarsi di velocità normale e ralenti e dalla colonna sonora di Robbie Robertson, ex “The Band”, il gruppo che accompagnava Bob Dylan quando faceva i concerti».
La musica, altra anima del suo cinema: com’è entrata nella sua vita ?
«Anch’essa viene dal fatto di aver passato molto tempo in famiglia. La chitarra di Django Reinhardt è il mio primo ricordo: i dischi di mio padre. In casa non c’erano libri. Ma musica, sempre, a tutto volume, jazz, rock, classica. Per Mean Streets mi sono ispirato a quel che sentivo di notte nei bar di Little Italy. Spesso le canzoni hanno preceduto il film, come uno storyboard sonoro: da Jumpin’Jack Flash e Be My Baby dei Rolling Stones sono nate le immagini sullo schermo. Com’era successo trent’anni prima con L’ultimo valzer, leggendario addio di The Band. Il cinema mi ha avvicinato ai miti della musica, a Bob Dylan, George Harrison, Michael Jackson, Peter Gabriel, Philip Glass, Bernard Herrmann. Mick Jagger mi coproduce adesso una serie tv per Hbo, Vinile, un excursus dagli anni Settanta sulla brutalità del business-musica. E per la Paramount (con cui ho appena firmato un contratto di quattro anni: faccio un film con De Niro, The Irishman, e uno con DiCaprio, The Devil in The White City), sto preparando un biopic su Leonard Bernstein, il grande direttore d’orchestra. Quello di West Side Story...».