Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 06 Domenica calendario

Quello che vuole veramente Erdogan

Ho visto che a Bruxelles si sono messi d’accordo per rilanciare il negoziato sull’adesione della Turchia all’Unione Europea. Ma, insomma, lei ha capito che cosa vuole veramente Erdogan?
Michela Bassi
Monza
Cara Signora,
Recep Tayyip Erdogan divenne primo ministro nel marzo del 2003 ed è oggi presidente di una Repubblica in cui il capo dello Stato, nelle sue intenzioni, potrebbe avere fra poco i poteri del presidente francese. Nell’arco di dodici anni la sua politica estera è passata attraverso fasi diverse.
In un primo momento Erdogan ha creduto che il suo Paese potesse diventare una potenza regionale, candidata all’Unione Europea, circondata e rispettata da Paesi con cui Ankara avrebbe avuto rapporti cordiali, non più gravati da vecchi contenziosi. Gli giovò, in quegli anni, il miracolo economico della Turchia, la possibilità di presentarla al mondo arabo-musulmano come il solo Stato della regione che fosse riuscito a coniugare solidità istituzionale e sviluppo. Ma questo disegno si è imbattuto lungo la strada in parecchi ostacoli. Non tutti i Paesi dell’Ue erano disposti ad accogliere la Turchia nel loro club; e non tutti i vecchi contenziosi, soprattutto con armeni e curdi, potevano essere liquidati, secondo le speranze di Erdogan, a costo zero.
La sua politica estera stava già zoppicando quando, improvvisamente, le rivolte arabe del 2011 hanno aperto nuove prospettive. Erdogan ha puntato sul loro successo e su quello della Fratellanza musulmana, ha creduto che la Turchia avesse le carte necessarie per essere punto di riferimento di tutti i Paesi arabi della regione. Nel giro di qualche mese il bilancio era molto meno positivo di quanto Erdogan avesse sperato. In Egitto il colpo di Stato dei militari contro la Fratellanza ha avuto per effetto la rottura dei rapporti diplomatici fra Il Cairo e Ankara. In Siria, dove Bashar al Assad cercava di reprimere la rivolta con la forza, Erdogan, per non rinunciare al proprio disegno, ha scelto di stare nel campo dei suoi nemici e ha permesso che il suo Paese diventasse, per i ribelli, una retrovia del conflitto. Un altro colpo è stato dato alla sua politica dall’apparizione dell’Isis sulla scena. Quando è stato chiaro che i migliori combattenti contro lo Stato Islamico erano le milizie curde, Erdogan ha temuto, non senza qualche motivo, che i curdi, prima o dopo, avrebbero chiesto la creazione del Kurdistan e che il conto sarebbe finito, in buona parte, sulle spalle della Turchia. Poteva continuare a fare una politica che diventava ogni giorno di più sgradita alla Nato, alle democrazie occidentali e, dopo l’abbattimento di un aereo russo, a Vladimir Putin?
Il fattore che lo ha tratto d’impiccio è stato la crisi dei rifugiati. Quando Angela Merkel ha capito che il problema, senza la collaborazione della Turchia, sarebbe stato insolubile, Erdogan ha scoperto di avere ancora qualche carta in mano. Ben consigliato, probabilmente, dal suo primo ministro (l’ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu), ha chiesto e ottenuto la riapertura dei negoziati per l’adesione all’Unione Europea. Molti altri problemi rimangono sul tavolo fra cui quello della sua ambigua politica siriana. Ma la nuova fase della politica estera turca contiene, in linea di principio, nuove prospettive. Vedremo quale uso saprà farne.