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 2015  dicembre 06 Domenica calendario

Terroristici islamici italiani, Google e quello che si può fare per fermarli in tempo

L’ imam più potente è Google, dicono. Ed è vero in parte. Perché enfatizzare il peso della predicazione web serve anche ad alleggerire tensioni nelle moschee, a cominciare da quelle radicali, dove talvolta imam improvvisati propagano rancore. Tuttavia un’intera nuova generazione dell’islamismo fondamentalista pare orientarsi sulla mappa di questa guerra feroce e sbilenca proprio attraverso lo schermo di un computer, auto-indottrinandosi, come aveva preconizzato l’ingegnere siriano Abu Musab Al Suri, teorico della «jihad individuale», secondo molti vero erede di Bin Laden: «Cellule piccole e separate, fratelli, per condurre la resistenza».
La jihad solitaria
Dopo Charlie Hebdo, servizi segreti, carabinieri e polizia hanno incrociato dati e indirizzi dei siti italiani più cliccati e caldi: un’ottantina. L’Arma ha da tempo un filone investigativo che si chiama JWeb da cui sono scaturite due inchieste aperte in questo momento alla Procura di Roma. I ragazzi della jihad nostrana vivono la sbornia online dei cinguettii e dei post non diversamente da qualsiasi coetaneo italiano «nativo digitale». Ma l’hanno riadattata alla loro causa. Comportandosi spesso «in contrasto con ogni regola di clandestinità», come notava qualche tempo fa il politologo Oliver Roy. «Propaganda e reclutamento via Internet sono parte integrante della jihad», sostiene un’analisi della Fondazione Icsa presieduta dal generale Leonardo Tricarico, sicché «il passaggio di alcuni amministratori di forum e autori di propaganda estremistica all’attività violenta è logica conseguenza della retorica jihadista che pervade la pubblicistica online».
Il tweet al ministro
I confini, anche psicologici, sono labili. Oussane Khachia, per esempio, l’ultima protesta contro lo Stato l’ha lanciata proprio via Internet, clamorosamente. Poco prima di essere rispedito in patria su un aereo, questo saldatore marocchino trapiantato in Lombardia, sospettato di essere pronto a passare dalla predicazione all’azione, ha piazzato un messaggio nel profilo Twitter di Angelino Alfano, parlando di sé in terza persona: «È stato espulso da Varese un giovane musulmano di seconda generazione proprio in queste ore per la nuova stupida norma di @angelalfa». Si riferiva all’impianto legislativo voluto dal ministro che rimanda ai Paesi d’origine personaggi ritenuti da molti gip non passibili di arresto. È successo da poco a Brescia, con i kosovari guidati a distanza dal militante dell’Isis Samet Imishti, indagati per apologia del terrorismo e istigazione all’odio razziale. Hanno fatto rumore a Bologna gli arresti negati dal gip per quattro presunti fiancheggiatori: espulsi anche loro. Come verrà espulso a breve un maghrebino che da Napoli fa propaganda sui siti, annunciando: «Sono un soldato dell’Isis, dobbiamo passare all’azione». Nessun obiettivo concreto, però, niente galera.
Una falla nella legge
Le espulsioni alla fine rimettono in circolazione un potenziale pericolo: la storia degli ultimi attentati insegna che i soldati della guerra santa, usciti dalla porta, rientrano dalle finestre d’Europa più attrezzati e determinati. E su Internet la distanza tra «promozione» del gruppo e «adesione» è variabile e incerta. «Per gli inquirenti è difficile trovare aghi piccoli in pagliai molto grandi», dice Lorenzo Declich, esperto di Islam contemporaneo e radicalismo: «Per rintracciare qualcosa di realmente pericoloso nei canali virtuali bisogna scendere molto in profondità, nel deep web» (appena il 4 per cento dei contenuti in Rete è visibile senza un particolare browser ).
Alcuni investigatori cominciano a sollecitare un inasprimento della legge 43 del 17 aprile 2015, ultimo strumento nella lotta al terrorismo islamista, proprio perché la semplice adesione (spesso palese) alla causa fondamentalista non viene d’abitudine punita dalla giurisprudenza: insomma non basta dire «sono dell’Isis», bisogna programmare specifiche azioni terroristiche per finire dietro le sbarre e restarci. Ma il passo successivo – inserire un comma che punisca il semplice gradimento sul web (il like ) o la condivisione di un post fondamentalista – se da un lato sarebbe forse prezioso sul fronte di Internet dall’altro non mancherebbe di aprire ragionevoli polemiche garantiste.
Il pericolo di cedere a una legislazione speciale è sempre dietro l’angolo, come quello di scambiare dementi e frustrati – di cui il web pullula – per guerriglieri in armi. «Loro mutano in fretta, noi siamo lenti», sospira tuttavia un detective di primissima linea: «Noi ci concentriamo sui returnees, i combattenti che tornano dal fronte siriano, e loro stanno già svegliando una leva di dormienti».
Cresciuti in casa
Li chiamano homegrown, questi dormienti: cresciuti in casa, ultima generazione svezzata da Internet. A loro si rivolgeva Madhi El Halili, operaio nel Bresciano, mettendo in rete con un documento di 64 pagine – «Lo Stato islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare» – le «meraviglie» del Califfato: «Il pane è distribuito gratuitamente e la polizia è amica dei cittadini». Mahdi è finito ai domiciliari. Durante l’estate è stato preso a Pisa un altro marocchino, Jalal el Hanoui, talento da smanettone prestato alla guerra santa. Jalal non metteva nemmeno piede in moschea, ma recitava lo stesso canovaccio di Mahdi: «Ha successo chi muore martire», postava su Facebook. Quando le intercettazioni hanno rivelato i contatti tra lui, Mahdi e Oussane Khachia (quello del tweet contro Alfano) si è intravista una rete più fitta. In questa rete si muove da febbraio, secondo l’antiterrorismo, una primula rossa (o più d’una) sotto lo pseudonimo di Hamel al-Bushra. In italiano, esorta «i fratelli che vivono nelle società occidentali ad agire contro i cani di Roma e di Obama». Seguono suggerimenti ai «veri lupi solitari»: «Evitate i posti dove abitavate prima... cercate di non aumentare il numero dei componenti del gruppo così non ci saranno ritiri durante l’operazione». E cupi ammonimenti per noialtri: «Oh italiani, voi siete i più vicini alla provincia dello Stato islamico della Libia, non coinvolgetevi in una guerra che non potete permettervi, che vi brucerebbe e si allargherebbe al vostro territorio, con il volere di Allah...».
Le sette entità
Nelle pagine web si combatte ogni giorno una battaglia invisibile tra la Islamic State Division (quella in cui s’è arruolata Merieme Rehally, la giovanissima marocchina fuggita da Padova a luglio) e gli hacker di Anonymous che hanno oscurato centinaia di siti jihadisti in una formidabile controffensiva. Da qui passa la conquista delle coscienze. Al Suri sarebbe fiero di Mohamed Game, il lupo solitario che, infervoratosi su Internet, tentò di farsi esplodere alla caserma Santa Barbara di Milano.
Si comincia da un licenziamento o da un sermone, e si coltiva rabbia. Rapporti dell’antiterrorismo indicano in un imam italo-australiano, Musa Cerantonio, una vera «star mediatica». Mohamed al Adnani, «ministro della propaganda» di al Baghdadi (e forse regista dei massacri di Parigi), ha del resto alle sue dipendenze sette entità: Al-Furqan, che diffonde in rete docu-film di battaglie dal finale eroico; Al-Hayat, che traduce e posta i video Isis; Al-I’tissan, concentrata su attentati nel teatro siriano-iracheno; Anjad, specializzata in anashid, i canti religiosi; Fursan al-Balagh, per i video girati nel territorio del Califfato; la rivista Daqib, online in pdf; la radio Al Bayan, che via Internet trasmette da Mosul.
Da questa galassia sprigionano anche i mujatweet, video web di 140 secondi (quanti i caratteri dei tweet, appunto) che raccontano la quotidianità del Califfato come in uno spot di qualche famosa pastasciutta: famigliole sorridenti, bimbi che mangiano il gelato, palloncini in cielo. Donatella Della Ratta, ricercatrice dell’università di Copenaghen, vi ha dedicato un bel servizio su Internazionale; è tuttavia guardinga sul peso reale di Internet fino ad andare controcorrente: «Mi preoccupa la paranoia che porta a sopravvalutare il web e a sottovalutare le moschee. Certe cose si fanno faccia a faccia. I sermoni più radicali passano per certe tv meno monitorate e per le mosch ee: quello è il punto di partenza. E d’arrivo».