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 2015  dicembre 06 Domenica calendario

Confronto tra Erdogan e Putin

Da una settimana, le molto seguite previsioni del tempo del Kanal Kultura hanno un nuovo sfondo. È il celebre quadro di Alexey Petrovich Bogolyubov sulla battaglia di Sinope, ultimo grande scontro navale dell’epoca delle imbarcazioni a vela e prologo della Guerra di Crimea. Accadde il 30 novembre 1853, durò un’ora e si concluse con la distruzione della flotta ottomana da parte della Marina imperiale russa, guidata dall’ammiraglio Pavel Stepanovich Nakhimov.
Nulla è per caso, nella perfetta macchina mediatica che sostiene il racconto del potere nella Russia di Vladimir Putin, sempre accerchiata e alle prese con nuovi nemici. E ora che un altro Sultano ha osato sfidare un altro Zar, la memoria di quel trionfo suona frustata patriottica all’interno e monito severo all’esterno.
In un Paese che, dopo quasi due anni di mobilitazione antioccidentale, dava piccoli segnali di affaticamento psicologico, l’abbattimento dell’aereo militare russo da parte dell’aviazione turca offre al Cremlino uno spauracchio inatteso da indicare all’opinione pubblica. Tanto più che la stolta bravata dei piloti di Ankara, segnata da una rapidità di reazione quasi incredibile alla violazione vera o presunta dello spazio aereo, porta con sé il legittimo sospetto dell’agguato. «Gli F-16 seguivano i nostri aerei da giorni, era tutto preparato», spiega l’esperto Ivan Konovalov, del Centro per la Congiuntura Strategica. «Una coltellata alla schiena», l’ha definita Vladimir Putin, precisando meglio il suo pensiero pochi giorni dopo nella solenne cornice della Sala di San Giorgio, dove ha escluso rappresaglie militari, ma ha ammonito che la Turchia «si pentirà molte volte». Un calcolo approssimativo stima che potrebbero costare ad Ankara fino a 12 miliardi di dollari, cioè un punto e mezzo di Prodotto nazionale lordo, le sanzioni economiche già varate o allo studio del governo di Mosca, dal blocco dei charter turistici russi al bando sulle importazioni agricole turche, dal congelamento dei negoziati per il South Stream alla cancellazione dei contratti per le grandi opere con le imprese anatoliche.
Ma soprattutto, nel giro di pochi giorni, la Federazione ha ripreso tutto intero lo slancio patriottico, trasfiguratosi nel 2014 nel grido «Krim Nash», la Crimea è nostra, ma apparso un tantino affievolito negli ultimi mesi. Chiudono fino a nuovo ordine i centri culturali turchi, la Federcalcio moscovita annuncia il divieto per i club russi di tesserare nuovi giocatori turchi nel prossimo mercato di gennaio, mentre i conduttori dei talk show più popolari consigliano al folto popolo dei vacanzieri di sostituire Antalya e Bodrum con la Crimea o con Samara, sul Volga. E se conferma la sua torva buffoneria da squilibrato il deputato nazionalista Vladimir Zhirinovski, quando dice che «Istanbul è facile da distruggere, basta gettare una sola bomba atomica», un’ironia sanguigna contagia anche le persone più insospettabili: «Due missili balistici russi si incontrano in aria. “Che fai a Capodanno?”, chiede uno. “Festeggio in Turchia”, risponde l’altro», è la barzelletta che mi racconta un sobrio analista di politica estera. La popolarità dello Zar è alle stelle: prima del fattaccio turco, Putin viaggiava già intorno all’85%. Ora la nuova rivalità con Erdogan il Sultano preannuncia un altro balzo. Nulla sembra scalfirlo, né la riduzione del 10% dei redditi reali, né il drastico calo dei consumi e le crescenti preoccupazioni per il futuro, che scandiscono la crisi economica innescata dal calo dei prezzi mondiali di gas e petrolio e amplificata dalle sanzioni occidentali per l’Ucraina. «Agli occhi del popolo, Putin difende l’autorità, l’indipendenza e la sovranità della Russia», spiega Lev Gudkov, direttore del Centro Levada.
In quindici anni al potere, Vladimir Putin ha riplasmato la percezione che i russi hanno di sé e del loro Paese. Secondo il Levada, nel marzo 1999 solo il 31% pensava che la Russia fosse di nuovo una grande potenza. Oggi ne è convinto il 70% della popolazione. La narrativa della presenza di un nemico alle porte è stata ingrediente fondamentale di questa evoluzione. «Quanto più forte è il confronto, tanto più cresce la convinzione che bisogna stringersi intorno a lui, essere pazienti e tollerare i difetti», dice Gudkov.
Eppure, anche chi si colloca in posizione critica verso Putin, conclude che una grande mano al racconto del Cremlino l’abbia data proprio l’Occidente: «Osteggiarlo è stato un grave errore, escludere la Russia, individuarla sempre come parte del problema e non della soluzione, ha favorito il senso di non essere rispettati. E Putin si è dimostrato molto abile nel saper leggere l’umore profondo del Paese», dice Vladimir Posner, volto carismatico della tv sovietica e russa, giornalista celebre per le sue interviste sempre molto aggressive.
Ma il bonus patriottico della crisi con la Turchia comporta anche dei prezzi. È densa di rischi e rischia di far terra bruciata la scelta di attaccare direttamente Erdogan, un Sultano autoritario e collerico per tanti versi simile sul piano politico allo Zar Putin, con l’accusa di essere coinvolto attraverso il figlio negli intrallazzi petroliferi con l’Isis. «I presidenti del Kazakistan e dell’Azerbaigian, Nazarbaev e Aliev, stanno tentando una mediazione su richiesta turca, ma in questo momento le porte del Cremlino restano chiuse», spiega Sergei Markov, specialista di politica estera legato a Russia Unita. Se infatti serve bene la macchina della propaganda, una guerra fredda redux con Ankara alla lunga non solo danneggia anche l’economia russa, ma complica ulteriormente l’equazione militare in Siria, dove difficilmente gli Stati Uniti e gli altri Paesi della Nato coinvolti vorranno o potranno smarcarsi dall’alleato turco. E l’ambizione russa del «pugno unico» contro il terrorismo jihadista rischierebbe di risultarne frustrata. «Occorre ragionevolezza da entrambe le parti – dice Konovalov – dopotutto la Turchia ha sempre il controllo dei Dardanelli e potrebbe creare grossi ostacoli alle nostre operazioni navali».