Corriere della Sera, 6 dicembre 2015
Le donne e la jihad (a proposito di Tashfeen). «Un manifesto recente dichiara che, benché il ruolo delle donne sia di “fare ciò che possono per la jihad attraverso la cura dei figli, la cucina e il cucito”, sono autorizzate a farsi esplodere o sparare se attaccate in casa o altrove “dagli infedeli” o dietro ordine di un emiro (facendo attenzione a indossare “abiti larghi”)»
Tashfeen Malik, l’attentatrice ventisettenne di San Bernardino indicata come responsabile della radicalizzazione del marito, non è certo la prima donna coinvolta in un’operazione terroristica. Il suo caso somiglia a quello di due donne usate nel 2005 in missioni suicide da Al Qaeda in Iraq. Non sono rare, nel Califfato, le donne-esca. L’Isis ha invece finora evitato un ruolo di combattenti per le donne.
«Credo che abbia sposato una terrorista». Il primo ad additare Tashfeen Malik, l’attentatrice ventisettenne di San Bernardino come responsabile della radicalizzazione del marito, è stato un collega di lavoro di Syed Farook. L’Fbi è cauta ma da quando è emerso che la donna ha dichiarato fedeltà al Califfo su Facebook, l’attenzione si è spostata su di lei: questa «semplice casalinga» (descrizione dell’avvocato) «timida e tranquilla» (parole della cognata) e madre di una bimba di sei mesi, che si è tolta il perenne niqab (i cognati non l’avevano mai vista in faccia) per uscire in abiti da combattimento e fucile d’assalto.
Restano molte domande. Dove sarebbe avvenuta la radicalizzazione? In Pakistan dov’è nata ed è tornata 5 anni fa per laurearsi in Farmacia (e dove non mancano sigle estremiste come Lashkar-e Taiba) o nella wahhabita Arabia Saudita, dove ha vissuto per 25 anni (e dove l’Isis ha diverse seguaci tra le donne istruite)? E quanto è profondo il legame con lo Stato Islamico, che ha definito la coppia di San Bernardino semplici «seguaci» in arabo mentre in inglese li ha chiamati «soldati»?
Una cosa è chiara: Tashfeen non è certo la prima donna coinvolta in un’operazione terroristica. «E c’è la possibilità che lei abbia spinto Farook a diventare radicale», dice al Corriere Mia Bloom, docente di Comunicazione alla Georgia State University e studiosa delle donne kamikaze. Malik è pachistana come Aafia Siddiqui, la neuroscienziata di Al Qaeda rinchiusa in una prigione del Texas: eroina dei jihadisti, l’Isis l’aveva proposta per uno scambio d’ostaggi con l’americano James Foley.
Le kamikaze
Bloom ritiene che il caso somigli di più a quello di due donne usate nel 2005 in missioni suicide da Al-Qaeda in Iraq (Aqi), l’organizzazione madre dell’Isis. Si tratta di Sajida al-Rishawi e Muriel Degauque, entrambe ritenute più «radicali» dei mariti. Al Rishawi era la sorella di un comandante di Aqi, divenne politicamente attiva quando tre dei suoi fratelli furono uccisi dalla coalizione Usa. Lei e il marito dovevano colpire un hotel di Amman, ma la cintura esplosiva di Sajida si inceppò (poi è stata impiccata). Muriel Degauge, belga convertita all’Islam, fu la prima kamikaze europea.
L’Isis però ha finora ufficialmente evitato un ruolo di combattenti per le donne. Anche nel caso di Hayat Boumedienne, la compagna dell’attentatore del supermarket kosher di Parigi Amedy Coulibaly, ci sono le sue foto mentre si addestra col velo e il fucile – e l’avvocato di Coulibaly disse «Era lei la più radicale. Lui voleva solo divertirsi» – ma non era in prima linea con il compagno, a differenza di Tashfeen. Hayat fuggì 5 giorni prima dell’attacco del gennaio 2015, per poi apparire in un’intervista sulla rivista dell’Isis Dabiq : non incoraggiava le «sorelle» a combattere, ma ad essere «basi di appoggio per i mariti, i fratelli, i padri».
Le reclutatrici
Rispetto ad altri gruppi jihadisti, l’Isis è ancora più aggressivo nel reclutare le donne, sia tra le occidentali che in Medio Oriente e Nord Africa. Il loro ruolo è quello di madri e mogli, reclutatrici (online) e in qualche caso insegnanti, medici o brutali poliziotte della moralità. Ma non combattenti. Una delle reclutatrici più note, Aqsa Mahmood, ex studentessa di Glasgow, nel 2014 ha scritto dalla Siria che è proibito: «Non ci sono operazioni di martirio né brigate segrete femminili. Ci sono molti uomini inattivi che aspettano di essere scelti. Per le donne è impossibile adesso. Se Dio vuole, vedremo in futuro».
Potrebbero esserci delle eccezioni. Un manifesto recente dichiara che, benché il ruolo delle donne sia di «fare ciò che possono per la jihad attraverso la cura dei figli, la cucina e il cucito», sono autorizzate a farsi esplodere o sparare se attaccate in casa o altrove «dagli infedeli» o dietro ordine di un emiro (facendo attenzione a indossare «abiti larghi»).
Tashfeen, comunque, esula da molte regole dell’Isis. «Si è sposata a 25 anni, non giovane dalle sue parti, ed era brillante all’università mentre un loro manifesto prevede le nozze massimo a 16 anni e senza troppi studi».
A Bloom ricorda il caso di Reem Saleh al-Riyashi, che nel 2004 divenne la prima madre kamikaze palestinese. Addestrata da Hamas, posò con la figlia in un video-testamento per lanciare il messaggio che la jihad è più importante della vita, dei mariti e anche della prole. Non è il messaggio dell’Isis, ma forse alcune donne vogliono un ruolo più attivo di quello richiesto dal Califfato.