La Gazzetta dello Sport, 5 dicembre 2015
Il Barcellona verso il miliardo di fatturato
Che ne sarà di noi? Torneremo mai al top d’Europa? La risposta è no. Anzi, il divario che separa i club italiani dai concorrenti internazionali è destinato ad aumentare. Questo non significa che non potremo sognare in grande. Il calcio è una palla che rotola: la Juve, e in precedenza l’Atletico Madrid e il Borussia, hanno dimostrato che si può arrivare in fondo al proibitivo sentiero della Champions senza essere i più ricchi. Però in termini di fatturato e, quindi, di capacità di spesa, le italiane resteranno delle outsider per molto tempo. Nei prossimi cinque anni si assisterà a un’ulteriore impennata delle squadre europee di prima fascia perché nell’industria dell’intrattenimento vige una legge spietata: pochi, selezionatissimi marchi hanno accesso ai mercati globali; più campioni hai, più vinci, più ti fai conoscere, più richieste ti arrivano dal mondo della pubblicità e dei media.
SOGNI BLAUGRANA Il Barcellona ha un piano clamoroso: raggiungere il miliardo di fatturato entro il 2021, come da promessa elettorale del presidente Bartomeu. L’anno scorso i catalani hanno registrato 566 milioni di ricavi al netto delle plusvalenze. Si tratterebbe di un incremento pazzesco ma a ben guardare quella promessa non è affatto campata in aria. Capitolo sponsorizzazioni. Il contratto con Qatar Airways scade a giugno e già si è ipotizzato un rinnovo a cifre raddoppiate (ora sono 32 milioni più bonus). Quello con Nike, valido fino al 2018, porta 33 milioni di sponsorship e 12 di royalty: tarando le pretese del Barcellona sul livello già raggiunto dal Manchester United con Adidas si potrebbe stimare un approdo a 100 milioni complessivi. Dal merchandising e dal licensing, gestito ora da Nike, arrivano 70 milioni, di cui 50 solo dal negozio dello stadio: si punterebbe al raddoppio. E poi c’è il Camp Nou da ristrutturare: nuova cittadella e capienza da 99mila a 105-110mila posti, inizio lavori nel 2017 e consegna nel 2021. I maggiori introiti, tra naming rights e miglioramenti dei servizi, potrebbero oscillare tra i 50 e i 100 milioni. Senza dimenticare la crescita organica delle altre sponsorizzazioni – basti pensare che la società blaugrana sta pianificando l’apertura di uffici a New York e Pechino, dopo Hong Kong – e, in misura minore, dei diritti tv. D’altronde, parliamo di més que un club : non in termini di romanticismo ma per il fatto che il Barcellona è una vera e propria impresa di spettacolo. Piccolo esempio. Arda Turan, acquistato in estate, inizierà a giocare a gennaio: i voli dalla Turchia sono già tutti prenotati.
LE ALTRE Il Barça, come gli altri top club che viaggiano attorno al mezzo miliardo di fatturato, ha già in testa dove andare a pescare altri 300 milioni per il prossimo quinquennio: bel lavoro per il neo direttore commerciale Francesco Calvo. Prendete il Manchester United. Le previsioni di bilancio per la stagione in corso, col ritorno in Champions e l’avvio del contratto con Adidas (1 miliardo di euro in 10 anni), indicano circa 700 milioni di fatturato (dai 519 del 2014-15). Dal prossimo anno, poi, i Red Devils, come le altre inglesi, beneficeranno dell’impennata dei diritti tv della Premier (+70% solo per il mercato domestico!). In più il City, grazie alla partnership stretta col consorzio guidato da China Media Capital, che ha rilevato il 13% del gruppo, ambisce a penetrare pesantemente in Asia. I margini di crescita sono notevoli, considerando che in Cina il City cattura solo il 5% dei tifosi di Premier contro il 32% dello United e il 23% di Arsenal e Chelsea, secondo una ricerca di Yutang Sports. E lo sceicco Mansour pensa di acquistare un club cinese per aggiungerlo alla multinazionale che coinvolge già Manchester, New York, Yokohama e Melbourne.
ITALIA AL RALLENTY La crescita è il mantra di tutti. C’è chi progetta di rifarsi lo stadio, come il Real Madrid e il Chelsea. C’è chi ambisce a quadruplicare i proventi televisivi, come il Bayern Monaco, al quale attualmente la Bundesliga gira poco più di 50 milioni, la metà delle capolista inglesi e italiane, un terzo delle spagnole. Pure le italiane puntano a crescere ma i margini sono ristretti. In teoria dovrebbero essere ampi, visto che il calcio italiano è reduce da un periodo di profonda crisi e gli impianti sono inadeguati ai tempi. Ma il sistema, in tutti questi anni, non ha funzionato e non pare proprio esserci la volontà di svoltare. Felici di sbagliarci, il rischio però è che il gap cresca ancora. Attualmente i fatturati delle prime quattro d’Europa viaggiano tra i 474 milioni (Bayern) e i 578 (Real), quelli delle prime quattro d’Italia tra i 181 (Inter) e i 328 (Juventus). Dove possono arrivare le nostre?
PROSPETTIVE La Juve, che è quella messa meglio, in questa stagione dovrebbe raggiungere i 350 milioni grazie al nuovo ciclo di contratti. Il rapporto con Adidas sta funzionando bene, le vendite dei prodotti in gestione diretta viaggiano a +30-40%, entro due anni entrerà in funzione la cittadella alla Continassa che regalerà ricavi extra. Insomma, in 5 stagioni la Juve potrebbe spingersi anche a 400 milioni (a patto di restare in Champions) ma le sue ambizioni si infrangono nei limiti strutturali del calcio italiano, che all’estero ha una visibilità bassa, e del tessuto economico del Paese. Considerate gli sponsor di maglia: nessuna italiana tocca quota 20 milioni (17 Milan e Juve, 13 Inter), il Manchester United primatista (62) è lontano anni luce. L’Inter, nel processo di ristrutturazione del debito, ha presentato alle banche un business plan che prevede nel 2020-21 un fatturato da 280 milioni: 30 milioni dallo stadio, addirittura 110 dal commerciale (oltre il doppio di adesso), 90 dai diritti tv, 10 da proventi Europa League e 40 dal resto. I 280-300 milioni nerazzurri sono possibili ma con introiti e vetrina da Champions. Il Milan è la società italiana che negli ultimi venti anni ha lavorato meglio nel marketing, ma senza le coppe il suo appeal si è appannato. I progetti rossoneri non sono chiari, di sicuro lo stadio di proprietà è stato accantonato. Un’incertezza sul futuro che riflette le difficoltà di tutto il sistema italiano nell’affrontare le sfide della globalizzazione.