il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2015
Quattro chiacchiere con Nino Sgarbi, papà di Vittorio ed Elisabetta, che a novant’anni s’è scoperto scrittore
Maledetti questi tempi moderni di treni veloci e frette inutili. Per fare quest’intervista ci volevano almeno due giorni di chiacchiere. E anche di silenzi. Perché se pensi che il silenzio sia muto “Vuol dire che non ne ha mai ascoltato uno. Altro che muto: ha più voci di un coro. E non una uguale all’altra”, come si dice in un capitolo di Non chiedere cosa sarà il futuro. Una vita troppo lunga quella di Giuseppe, detto Nino – 94 anni, farmacista di campagna, marito, padre, cacciatore, pescatore e da poco anche scrittore – per raccontarla con l’urgenza del tempo reale. Anzi: con la premura, parola delicatamente impolverata, rimasta impigliata nella rete del secolo passato, ma che gli assomiglia di più.
Ro non è più lungo da attraversare che da pronunciare, però ci manca poco. Da Bologna si percorre una campagna sconfinata di orizzonti senza alture, bassa come la Bassa di Don Camillo solo che qui l’Emilia muore, apri la finestra e c’è il Veneto. Però il Po è lo stesso, “l’unico fiume rispettabile che esista in Italia”, dice Guareschi. “I fiumi che si rispettano si sviluppano in pianura, perché l’acqua è roba fatta per rimanere orizzontale, e soltanto quando è perfettamente orizzontale l’acqua conserva tutta la sua naturale dignità. Le cascate del Niagara sono fenomeni da baraccone”. Ro e il Po: una sillaba sola, paesaggi corti eppure pieni di storie. Prima di raccontarle, bisogna chiarire la questione nominale, dove si deve metter in dubbio la giustezza di Giustiniano, quel famoso nomina sunt consequentia rerum. Mica sempre. O mica del tutto. Un esempio? Dici Sgarbi e pensi a Vittorio. O a Elisabetta. Eh no, c’è anche Nino. Che dei suoi figli non è fiero, è orgogliosissimo proprio. Sul tavolone del salotto i giornali sono allineati e segnati. Su Repubblica c’è scritto a pennarello: “Elisabetta, pagine 32-33″”. Sul Corriere, “Elisabetta, 54”. È il giorno della Nave di Teseo, la nuova avventura editoriale di Elisabetta, e quindi le cronache parlano di lei. Nino ci aspetta seduto in un salotto che è lo specchio di Vittorio e della mamma, straripante com’è di quadri e sculture che loro compravano insieme. “Stiamo qui, vuole? Così mentre parliamo vediamo tutte queste belle cose”. Ma è quasi ora di pranzo per la nutrita compagnia che popola la casa: segretari, autisti, governanti.
Poche settimane fa se n’è andata la grande protagonista di tutte le storie: la Rina, l’altra metà di un matrimonio durato più di sessant’anni. Così amata che gli sbagli di Nino, mentre racconta, sono tutti di coniugazione. Parla al plurale, dice cose come “la stanza dove dormiamo”. Subito si corregge, subito la voce inciampa e una lacrima s’affaccia. La conversazione può cominciare con l’avviso che ci sarà qualche intermezzo poetico, perché Nino di poesie ne sa parecchie a memoria. E gli piace tantissimo recitarle.
Dove nasce l’amore per la poesia?
Dio ha creato il mondo e l’uomo la poesia: sono i poeti a dare un’anima al mondo, sa? La poesia è il modo più nobile e bello che gli esseri umani hanno trovato per dire grazie per tutta la bellezza che la natura regala loro. Se amo così tanto la poesia è perché – oltre che bellezza – è soprattutto precisione, ordine e armonia. Il contrario dell’approssimazione. Penso che, se guardassimo al mondo con l’occhio dei poeti e trattassimo le cose con la stessa grazia con cui essi trattano le parole, non ci troveremmo davanti agli occhi certi ignobili scempi… Pensi all’Aquilone di Pascoli: racconta con immagini meravigliose la morte di un ragazzino. “Meglio venirci ansante, roseo, molle di sudor, come dopo una gioconda corsa di gara per salire un colle”. E alla fine, “Meglio venirci con la testa bionda, che poi che fredda giacque sul guanciale, ti petinò co’ bei capelli a onda tua madre… adagio, per non farti male”. Si può dire l’indicibile meglio di così?
Come ci si scopre scrittori a novant’anni?
Per caso. La Betti mi aveva detto: dài, scrivi qualcosa. Siccome non ci vedo quasi più mi sono fatto aiutare e così è cominciato tutto. Io raccontavo e il mio amico Giuseppe scriveva i miei ricordi di un tempo. Un tempo che ho passato soprattutto sull’argine del Po. Mio padre mi aveva comperato una barca di quelle con il seggiolino scorrevole, come i vogatori del canottaggio. Andavo dall’argine di Stienta – il paese dove sono nato, sulla riva opposta rispetto a Ro – fino a un’isola di sabbia che stava in mezzo al fiume. Da lì, a nuoto, raggiungevo Ravalle che adesso è un gran centro di caffè e vita mondana. Ma al tempo in cui ci andavo a nuoto c’era la chiesa, un’osteria e tre oche che passeggiavano davanti al sagrato. Avevo vent’anni, super giù. Ero in licenza dalla scuola Allievi ufficiali dell’Aquila.
Ha fatto grandi sforzi per ricordare?
No, è venuto tutto naturale. Le dirò una cosa: mi sembrava di scrivere baggianate, come diciamo in dialetto. Adesso sembra che abbia fatto chissà che cosa: richieste, ristampe…Quando ho letto la prefazione di Claudio Magris ho fatto un salto sulla sedia. Mai avrei creduto che un intellettuale e uno scrittore del suo spessore e della sua grandezza potesse dire certe cose dei miei libri… Sono rimasto sorpreso e incredulo. Meravigliato anche quando Vittorio, una sera che era qui, ha preso in mano il brogliaccio e si è messo a leggere. Si è entusiasmato in un modo che non avrei mai creduto per un uomo colto come mio figlio.
Dai suoi libri si capisce che lei è stato un grande lettore.
Ho iniziato a dodici anni, mio padre mi aveva mandato a studiare ad Ancona da mio zio. E lì ho scoperto la letteratura con un grande romanzo, I miserabili di Hugo. Era grande anche come formato, chissà dov’è finito… La Betti ha fatto mettere tutti i miei libri in quella Torre che vede nel giardino: l’ho fatta costruire io.
A questo punto bisogna avvisare il lettore che l’intervista s’interrompe per una buona ora. La signora Katia entra per avvisare che “c’è Vittorio in televisione”. E in effetti su La7, Sgarbi è ospite di Tiziana Panella. “Alza il volume”, chiede Nino, aggiornatissimo su tutti i recenti accadimenti. Vittorio, questa volta, è molto calmo: s’infervora una volta sola. Ed è lì che Nino, ad alta voce lo prega: “Fai piano Vittorio, fai piano dai”. “Sa”, dice, “il mio timore è che Vittorio con il suo modo di fare si crei dei nemici”. Al rientro non si può non parlare dei figli, che un po’ come per Cornelia sono i suoi due gioielli.
Da un minuscolo centro della Bassa i suoi figli hanno fatto fortuna.
Si sono fatti da soli. Entrambi hanno ereditato l’intelligenza dalla Rina, più che da me. Hanno fatto tutto da soli, avendo per nascita il desiderio di istruirsi. Di leggere, di ragionare. E anche di fare qualcosa della loro vita. Vittorio da piccolo lo chiamavano “ocialina”, in dialetto, perché portava gli occhiali. Lo prendevano in giro e lui ha imparato a difendersi. Vada alla finestra: vede quella pianta enorme? È un cedro del Libano, l’ho piantato quando è nato Vittorio: era alto si è no un metro e mezzo. Adesso guardi com’è maestoso e imponente. Anche con i figli, devi sperare che vada così. Comunque Vittorio non mi perdona di averlo mandato in collegio: ma l’ho fatto perché la Rina aspettava la Betti e lui era un bambino vivace, impegnativo. Volevo lasciarle un po’ in pace, mia moglie e la bambina. Ci era stato suggerito dal parroco di Stienta. Era un bellissimo collegio, e famoso: il Manfredini di Este. Purtroppo l’hanno chiuso. Quando era in collegio, Vittorio cercava sempre di scappare. Sa dove andava? In cerca di libri “proibiti”: una volta ci hanno convocato perché avevano trovato nel suo banco una copia di Senilità di Svevo! Aveva tredici anni.
Con sua moglie siete stati sposati più di sessant’anni: come ci si riesce?
Sì, e adesso è quasi incredibile questo vuoto. Il merito è stato della Rina, e ancora oggi le sono grato per avermi lasciato libero. Quando volevo andare a pescare, attività che amavo follemente, in farmacia ci stava lei. L’abbiamo comprata insieme alla casa (sono confinanti, al centro del paese, ndr) nel 1951 per 14 milioni. Mi ricordo benissimo il primo bacio, sul Montagnone di Ferrara, eravamo all’Università, entrambi studiavamo Farmacia. E il Montagnone era vicino al laboratorio dove facevamo lezione di Chimica. Ricordo anche la prima volta che sono andato nella casa di mia moglie: era la casa del canonico Brunoro Ariosti in cui aveva vissuto Ludovico Ariosto che lì aveva scritto le satire, le commedie e le prime due edizioni del “Furioso”. Abbiamo fatto le pubblicazioni subito, senza dirlo alle nostre famiglie. Ci sembrava un fatto naturale: esserci incontrati, baciarci, toccarci. E quindi sposarci… In viaggio di nozze siamo andati a Napoli, con il treno. Abbiamo visto il Vesuvio.
Il libro inizia con una partita a tennis contro Giorgio Bassani: che uomo era?
Intanto c’è da fare una premessa: la differenza tra le mie e le sue abilità tennistiche era la stessa che passa tra le mie pagine e la sua letteratura. Mentre la maggior parte delle mie cose faticano a superare la rete, le sue continuano ad andare felicemente a punto… Ci siamo incontrati al Tennis Club Marfisa, il circolo più antico e nobile di Ferrara, il cui famoso torneo Bassani aveva vinto per tre edizioni di fila, prima delle leggi razziali: 1935, ‘36 e ‘37. Non ricordo il punteggio finale, ma la sconfitta fu pesante. Alla fine, quando ci avvicinammo alla rete per la stretta di mano aveva un’aria molto compiaciuta. Io allargai le braccia, come dire: “Onore al merito”. E lui, molto signorilmente: “Se vuole, conosco un bravo maestro: potrebbe prendere qualche lezione e magari la prossima volta…”
Nel libro ricorda anche una conversazione – avvenuta in questa cucina – tra Bassani, suo cognato Bruno Cavallini e il regista Valerio Zurlini.
L’argomento era il film di De Sica tratto da Il giardino dei Finzi-Contini: Bassani aveva disconosciuto la sceneggiatura. E pure a distanza di anni quel film non gli andava giù. Un giorno incontrò qui, per caso, Zurlini che prima di De Sica aveva avuto l’idea di portare al cinema i Finzi-Contini. Poi il progetto s’arenò e qualche anno dopo lo fece De Sica, stravolgendo – secondo Bassani – il senso del suo romanzo. Ci furono molte scintille in quell’incontro, che io provai a sedare con una bottiglia di rosso speziato… Per Bassani provavo molta simpatia, anche perché sapevo che gli toccava sopportare una famiglia litigiosa.
Cicerone dice che la vecchiaia è l’età più ambita: tutti vogliono raggiungerla, poi quando ci arrivano se ne lamentano.
La vecchiaia arriva con calma. Un po’ alla volta. E non è vero che ti prende alle spalle, come dice qualcuno. Sappiamo benissimo che arriva. Come riesce a coglierci sempre di sorpresa non lo so, sospetto che sia perché non viene da fuori. E quando fuori si cominciano a vedere le prime tracce, dentro è successo tutto. “Se la vita è sventura/Perchè da noi si dura? Intatta luna, tale/È lo stato mortale. Ma tu mortal non sei/E forse del mio dir poco ti cale”. È il Canto notturno di Leopardi, una poesia perfetta, forse la più bella mai scritta. Ma adesso mi viene in mente anche D’Annunzio: “Tutto fu ambìto e tutto fu tentato. Quel che non fu fatto io lo sognai; e tanto era l’ardore che il sogno eguagliò l’atto”.
Ne libro parla anche della terza età come di un’invenzione.
Da piccolo quando parlavano i grandi dovevi stare zitto. E le rare volte che ti riusciva d’infilare una parola, ti guardavano tutti con quel sorrisetto a metà tra compiacimento e tolleranza. Un sorrisetto che significava: “Vabbè: adesso la tua l’hai detta, torna a fare silenzio”. Non lo sopportavo. Perché ho sempre pensato che la vita comincia quando decide lei e non quando lo dicono i “grandi”. L’infanzia non è l’anticamera dell’esistenza. E la vecchiaia non ne è affatto la soffitta. Tutte le stanze di una casa – dalla più piccola alla più grande, dalla più abitata alla più vuota – ne fanno parte. Non c’è il “peso lordo” dal quale, una volta sottratte infanzia e vecchiaia, si ricava il “netto” dell’esistenza. La vita è vita tutta: dall’inizio alla fine. La terra questo lo insegna bene: dal seme alla buccia, in ogni frutto c’è tutto. Dubito che qualcuno abbia mai sentito la buccia dire ai semi: “Zitti voi, che siete troppo piccoli!”. Per questo la cosiddetta “terza età” è solo un’invenzione di chi vuole avere il campo libero tutto per sé. Tutto questo, però, non ha niente a che vedere con il fatto che il passo si fa più incerto, muoversi è complicato. La vista perde la sua lucidità e le cose appaiono più confuse. Come per la memoria, in certi momenti s’ingarbuglia tutto. È una disgrazia che mi capita negli ultimissimi tempi, ricordare male. Vede quel quadro? Mezzora fa le ho detto che è di Artemisa Gentileschi, mi sono ricordato solo ora che il soggetto è Cleopatra che si suicida.
Che cos’è la paura dei ricordi, di cui scrive?
È un sentimento difficile da definire. Più una vertigine che una paura vera e propria: fa girare la testa. A me prende soprattutto la sera, a letto. Non appena chiudo gli occhi, i ricordi cominciano a fluire: così tanti, vividi, intensi, vocianti. Un su e giù che ti lascia stordito, ma anche felice, perché ti accorgi che le cose che credevi perdute sono ancora tutte lì e che, anche se, a un certo punto tu le hai dovute abbandonare, loro ti sono rimaste fedeli. Non ti hanno tradito né abbandonato e non lo faranno mai. Sa, il passato ha un unico vantaggio; unico, ma immenso: non passa più.