il Giornale, 5 dicembre 2015
In Giappone il 99,8% degli imputati finisce condannato
I did it even if I didn’t, mi dichiaro colpevole anche se sono innocente. L’Economist punta i riflettori sul sistema penale giapponese, e lo scenario è da incubo. Nel 2014 l’89 per cento delle inchieste penali è sorretto dalla confessione del presunto autore del reato. In altre parole, nove volte su dieci l’indagato confessa. E nel 99,8 per cento dei casi il processo sancisce la sua colpevolezza definitiva.Indagine, confessione, condanna: è il rito nipponico in tre atti. Tutto filerebbe liscio se non fosse che, come facilmente prevedibile, le confessioni spesso sono false: le persone indagate si autoaccusano al solo scopo di far cessare un duro interrogatorio, ottenendo magari una pena più lieve. L’Italia non è certo estranea all’abuso della carcerazione preventiva come mezzo per estorcere confessioni: Tangentopoli è un caso di scuola. E la terra del Sol Levante sembra mutuare la cattiva lezione con esiti eclatanti: nove volte su dieci l’accusato confessa. Polizia e inquirenti possono prolungare lo stato di fermo, senza aver formulato un’imputazione, fino a 23 giorni. In teoria, l’accusato avrebbe il diritto di avvalersi del silenzio. Di fatto, il silenzio è considerato come un’ammissione di colpevolezza. «Talvolta chi conduce l’interrogatorio ti spinge il tavolo contro, ti calpesta i piedi e ti urla nelle orecchie», è il resoconto del settimanale britannico. I colloqui possono durare più di otto ore. Gli indagati sono privati del sonno e costretti in posture scomode. In pochi sopportano un trattamento simile. Dietro la parvenza di ordine e pulizia le celle nascondono una ridda di vessazioni volte a fiaccare mente e corpo.Le «regole draconiane» vietano ai detenuti di guardare negli occhi le guardie penitenziarie salvo esplicita autorizzazione. Dietro le sbarre vige il silenzio salvo brevi momenti della giornata in cui è consentito ai detenuti parlare tra loro. La lettura è ammessa di rado. «In cella puoi soltanto respirare», dichiara Toshio Oriyama che ha trascorso 22 anni in carcere per un omicidio al quale ancora oggi si dichiara estraneo. «Quando facevamo la doccia, vedevo le piaghe da decubito sulla schiena degli altri», racconta a proposito del divieto di stare in piedi in cella. Kazuo Ishikawa è trattenuto in stato di fermo per 30 giorni fin quando si decide a firmare una pseudoconfessione. Non sa leggere ma non può resistere oltre e firma, senza sapere che così ammetterà di aver assassinato un uomo e resterà in galera per i successivi 32 anni. Invece dopo 46 primavere nel braccio della morte, lo scorso anno Iwao Hakamada è rimesso in libertà. Il giudice ordina la scarcerazione dimostrando le forzature e gli abusi commessi dagli inquirenti al fine di «fabbricare» le prove contro di lui. Hakamada racconta di essere stato sottoposto a interrogatori quotidiani della durata di 11 ore per 23 giorni consecutivi, conditi da manganellate e punzecchiature per impedire il sonno. È uno scenario da incubo che però non sembra toccare la sensibilità della classe politica e dell’opinione pubblica giapponese. Le sentenze dei giudici sono la «voce del paradiso», e se nove volte su dieci l’indagato confessa è un successo della giustizia made in Japan.