La Stampa, 5 dicembre 2015
Consigli sulle mostre da vedere durante questo ponte dell’Immacolata
Il lungo ponte dell’Immacolata permette di immergersi in un profluvio di mostre. Per esempio quella d’un pittore trascurato come Schiavone a Venezia o il grande ritrattista degno-tizianesco Moroni, in «Io sono il sarto» nella sua Bergamo. Senza contare il grande successo di De Chirico a Ferrara, o il favore stupito per un Balthus assai inedito, a Roma, per la grandiosità risorgimental-verdiana di Hayez a Milano o del ben calibrato Fattori a Padova (e quando si dice Ottocento, c’è sempre alle spalle il livello qualitativo del curatore Mazzocca). Ma appunto, accanto a questi «soli» trionfanti e visitatissimi, ci sono ancora delle mostre-satelliti, di tutto rispetto, che possono diventar davvero meta di remunerativi pellegrinaggi, in questi giorni di festa. Per rimanere nell’aura di Fattori, per esempio, a Milano, al Poldi Pezzoli, c’è una piccola ma curata mostra, dedicata ai Macchiaioli, che ha una particolarità felicissima. Volendo mettere in luce il ruolo del mecenatismo lombardo, proprio nella casa del collezionista ottocentesco Poldi Pezzoli, si ricostruisce l’elegante magione di Giacomo e Ida Jucker, di famiglia svizzero tedesca e di tradizione cotoniera, che prediligono la pittura dell’Ottocento italiano, al tempo così trascurata (su consiglio però di Emilio Cecchi e di Somarè). Mentre il cugino Riccardo, più famoso, è lo Jucker della Collezione, acquistata dal comune di Milano, Museo del Novecento, che anche lui teneva capolavori in casa: tre Picasso e Braque in salotto, Modigliani in camera da letto, Carrà e Morandi in sala da pranzo. Se qui campeggia, insieme a Fattori, Abbati, Signorini, la celebre Curiosità di Lega, con la sensuale ragazza che sbircia dalle gelosie, altre opere prestigiose del periodo si trovano alle Scuderie del Castello Visconteo di Pavia. Ma sempre dedicata a Lega, per il grande successo, è stata prorogata sino all’8 dicembre la preziosa mostra sui suoi inediti, «Scoperte e rivelazioni, Storia di un’anima», nello specializzato Centro Matteucci di Viareggio.
In fondo si tratta pur sempre di collezionismo, regale o alto-borghese, per quanto riguarda altre due raccomandabilissime mostre. Quella di Palazzo Reale a Milano, dal titolo (un po’ fuorviante) «Da Raffaello a Schiele», e quella romana, al Palazzo delle Esposizioni, «Impressionisti e moderni» sulla collezione Phillips di Washington. La prima, che mette insieme due nomi apparentemente dissonanti, in realtà nasconde nel suo ventre opere di straordinaria qualità e fascino, e che nomi, scelti con sapienza da Stefano Zuffi nel Castello di Budapest. La lista dei 76, tutti prestigiosi, sarebbe lunghissima: da Tiziano a Tintoretto, da Cranach a Dürer, da Veronesi a Moroni, da Velázquez a Rubens a El Greco, e che El Greco! dalla Gentileschi a Canaletto a Bellotto, e poi Manet, Cézanne, Böcklin, Segantini, Rodin, più la Madonna Esterahzy di Raffaello e disegni di Leonardo. Tutti dovuti alla scelta sagacissima di raffinati aristocratici ungheresi, dal gusto infallibile (praticamente gli stessi Esterhazy che avevano, come musicista di corte, il grande Haydn). Ma non meno infallibile era l’occhio sublime del collezionista Duncan Phillips, e chi è stato a Washington sa quale è la il livello delle opere di quel museo, che si voleva «intimo e raccolto, ma anche sede di sperimentazione», coraggiosissime, nel 1921. Per celebrare il centenario della fondazione del museo, ecco questa trasferta imperdibile, straricca di Degas, Monet, van Gogh, Bonnard, Soutine, Braque, ma anche Goya e Ingres, Delacroix e Courbet, senza dimenticare gli americani, Dove, O’Keefe, Rotkho, Guston. Uno può essere anche perplesso, rispetto a mostre-museo in trasferta, se non deportate. Ma l’occasioni di godere di opere così alte e scelte, cancella ogni tipo perplessità.
Tra l’altro, si può rimanere tutto il giorno nello stesso Palaexpo di Roma, e vedersi, contemporaneamente, una divertente «fiera» di opere degli «Artisti russi», un secolo «on the road», per lo più del realismo socialista sovietico: dagli atleti di Deineka a Gagarin alle pendici della pittura putiniana, il tutto spesso di gusto kitschissimo, ma godibilissimo. Quello che un tempo era davvero cattivo gusto, da mettere in soffitta, leggi liberty, floreale, art nouveau o déco, ritrova il suo glamour intatto nella regale mostra dedicata all’abitare, tra Italietta giolittiana e nascita del design. Titolo un po’ fuorviante, «Una dolce vita?», curata dall’affiatato tandem Mapi Maino e Irene de Guttry, insieme a Guy Cogeval, direttore del d’Orsay (da cui la scenografica mostra proviene) inseguendo via via ebanisti, ceramisti, pittori, scultori, mastri vetrai, regala un percorso labirintico, attraverso la storia del gusto, che non si può perdere.