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 2015  dicembre 05 Sabato calendario

Uber vale più di General Motors a Wall Street. Conseguenze

I mercati possono rimanere irrazionali molto più a lungo di quanto tu possa rimanere solvibile». La frase di John Maynard Keynes riecheggia tra i tavoli da ping pong, i cappuccini à gogo e i giovani in ciocie nei quartieri generali della «sharing economy». L’economia della condivisione – dei taxi di Uber, degli appartamenti di Airbnb, dei messaggi di Snapchat – sta stregando gli investitori con la promessa di utili enormi e il miraggio di una rivoluzione nella vita di centinaia di milioni di persone.
È una bolla speculativa? Lo pensano in molti, vista l’ascesa verticale di aziende giovanissime che per ora offrono belle speranze e accattivanti visioni futuristiche ma pochi soldi contanti. Ma c’è anche chi, tra gli investitori e i banchieri di Wall Street, ricorda Keynes, e il passato più recente, e confessa di aver più paura di essere lasciato a piedi dal convoglio trionfale di Uber e compagnia che di rimanere bruciato dalla fine del sogno.
Per il momento, il canto delle sirene di Silicon Valley fa concorrenza al vocione di Adele, il fenomeno-pop del momento. Proprio questa settimana, Uber – la portabandiera della nuova economia – è stata valutata a 62 miliardi e mezzo di dollari da un nuovo gruppo di investitori, secondo l’agenzia di stampa Bloomberg.
A questi livelli, un’azienda che non ha ancora compiuto sette anni, perde soldi (a quanto si sa, visto che Uber è privata e rivela poco) ed è nel mirino di governi di mezzo mondo «vale» di più della General Motors, che di anni ne ha 107, fa dieci volte il fatturato di Uber e, nonostante tutti i suoi problemi, ricava circa 4 miliardi di dollari all’ anno in utili.
Se la bolla esiste, sta avvolgendo San Francisco, la capitale dell’economia della condivisione e la sua più grande beneficiaria. Ci sono andato quest’estate per La Stampa e sono stato quasi travolto da questa nuova febbre dell’oro: affitti e alberghi alle stelle, ristoranti pienissimi e un mercato dell’arte in grandissimo fermento. Tutto grazie agli utili, sognati o reali, delle grandi della tecnologia.
A Facebook, uno degli esempi più eclatanti della nuova generazione della tecnologia, c’era persino un club segreto – «i 250 Noveau Riche» – le fortunatissime 250 persone che guadagnarono di più dalla quotazione miliardaria di tre anni fa e che si incontravano per parlare di quello che avrebbero comprato con i loro «nuovi» soldi.
Storie incredibili ma vere. Storie che ricordano eccessi del passato in un settore abituato ad alternare anni di vacche grassissime a periodi d’inedia. Non è un caso che le giovani società più amate dagli investitori – quelle con una valutazione di più di un miliardo di dollari – siano state ribattezzate unicorni, creature mitiche d’origine sconosciuta e dal futuro incerto.
È facile convincersi che si è nel mezzo di una delle ennesime bolle dell’IT quando si guarda al panorama reale di San Francisco con le sue gru e grattacieli semi-costruiti a perdita d’occhio e al panorama metaforico dei mercati in cui investitori pieni di soldi stanno inseguendo fantomatici unicorni.
I banchieri che si ricordano gli altri collassi dell’IT predicono che lo scoppio della bolla avverrà quando la Federal Reserve smetterà di stimolare l’economia americana con il denaro a basso prezzo. Magari non questo mese quando la Fed incomincerà ad alzare i tassi d’interesse per la prima volta dal 2006, ma l’anno prossimo quando i tassi continueranno ad andare su.
Attenzione, però, a non farsi ingannare dal passato, dalla convinzione che la storia dei tulipani olandesi, del crac del 1929, del crollo del Nasdaq del 2000 si ripeta parola per parola. Ci sono fattori importanti che rendono l’attuale infatuazione di Wall Street con la tecnologia sia comprensibile sia sostenibile. E che potrebbero ridurre le perdite causate da un ribasso nei mercati.
Le bolle di solito nascono perché i mercati investono in società con prodotti e servizi di poco o nessun valore (tipo i tulipani). In questo caso, non si può dire che Uber, Airbnb e, ovviamente, Google, Facebook e Apple siano buone a niente. Unicorni o no, il McKinsey Global Institute ha predetto che l’economia della condivisione potrebbe creare 72 milioni di nuovi posti di lavoro e aggiungere più del 2 per cento al Pil mondiale nei prossimi dieci anni.
Marc Andreessen, uno dei guru di Silicon Valley – fondatore di Netscape e ora investitore di prestigio nell’IT – parla spesso di un’altra differenza fondamentale con i crac del passato. Dal suo pulpito di Twitter (ovviamente…), Andreessen attacca le Cassandre con un semplice fatto: l’esplosione dei telefoni cellulari «intelligenti». Per lui e molti altri, l’avvento dell’iPhone e dei suoi rivali sta trasformando il modo in cui viviamo le nostre vite – da come ci muoviamo in città a come guardiamo la televisione a come compriamo i regali di Natale.
È il filo conduttore che lega quasi tutte le società di punta della tecnologia odierna: il telefono permette alle aziende di raggiungere milioni di persone senza troppa fatica e pochissimi costi.
Gli economisti lo chiamano «cambiamento di paradigma», il raro momento in cui produttori e consumatori trasformano il modo in cui interagiscono, creando nuovi motori economici, industrie inedite e fonti di benessere inaspettate. Chi crede nel futuro dell’IT, e ci ha messo dei soldi, è convinto che siamo a questo punto focale nella storia dell’economia, non meno importante della rivoluzione industriale o l’arrivo dei primi computer.
Se hanno ragione, un calo nei mercati o nelle valutazioni delle varie Uber, o il relativo fallimento delle tante società che si sono quotate in Borsa senza fuochi d’artificio negli ultimi mesi, non dovrebbe intaccare la metamorfosi di fondo. «È un cambiamento strutturale che può sopravvivere ai vari cicli economici», mi ha detto un banchiere che da poco si è convertito, e trasferito, a Silicon Valley.
È senz’altro possibile, soprattutto in un’era in cui le società di informatica hanno rimpiazzato i giganti industriali come perni del capitalismo americano. Ma anche se non ci sarà un crac, gli alti e bassi dell’economia faranno sì che aziende blasonate e ricche falliranno, che leader esaltati come geni visionari verranno criticati per strategie sbagliate e che investitori grandi e piccoli ci rimetteranno parecchi soldi.
Chi guarda all’esplosione della tecnologia si dovrebbe ricordare delle parole di un inventore d’altri tempi, Edwin Land, il fondatore della Polaroid: «Non dico che sarete tutti felici. Sarete infelici ma in modi nuovi, importanti e entusiasmanti». Dove ho trovato questa citazione? Sul profilo di Twitter di Marc Andreessen.