La Stampa, 5 dicembre 2015
Pannolini, proiettili e Corano nella casa di Syed e Tashfeen
Nel soggiorno della casa di Syed e Tashfeen c’è ancora il girello con i giochi per la figlia di sei mesi: oltre quel muro, nel garage, papà e mamma costruivano le bombe per fare una strage. La banalità del male, come la chiamerebbe Hanna Arendt, è in mostra al numero 53 di Center Street, dove abitava la coppia che ha ucciso 14 persone a San Bernardino.O magari la normalità del male, che fa ancora più paura, perché se una coppia così si può radicalizzare via Internet, imbracciare un mitra e ammazzare a caso i colleghi di lavoro, tutto può succedere nell’era dell’Isis.Sono le nove del mattino quando Doyle Miller, proprietario della townhouse affittata alla famiglia Farook a Redlands, decide di aprire la porta ai giornalisti. Per due giorni l’Fbi ha perquisito l’appartamento, mandando avanti i robot per paura di trovare bombe pronte a esplodere. La porta d’ingresso è sfondata e a terra è pieno di vetri. A sinistra c’è il bagno degli ospiti, a destra la cucina. Il lavandino è pieno di piatti sporchi, e sul lavello c’è un pezzo di pane naan mezzo masticato. Il caos suggerisce che la casa è stata abbandonata in fretta, senza pensare a cosa restava indietro. La credenza però è ancora piena di scatole della Shan Foods, una compagnia pakistana, per preparare cibi mediorientali: spezie per il Chappli Kabab, Haleem Masala, Pav Bhaji.
Girello e caricatori
La prima cosa che attira l’attenzione, nel soggiorno ancora coperto dalla moquette sporca, sono il girello e il tappetino che troveresti nella casa di qualunque coppia americana con una figlia di sei mesi. Vicino c’è pure una macchina col tapis roulant per tenersi in forma. Sul tavolino del caffè sono posate una copia del Corano, e le carte dove l’Fbi ha elencato le prove portate via dopo la perquisizione: 34 scatole di proiettili calibro 223, quelli sparati con i mitra della strage, un manuale per l’uso delle armi, un «manifesto con scritte in lingua straniera».Salendo le scale rivestite dalla moquette verde si sale al secondo piano, dove la famiglia Farook dormiva. A destra c’è la stanza della bambina, con la culla, un orsacchiotto di peluches, e due scatoloni di pannolini ancora sigillati. Nell’angolo, sotto la finestra che guarda sulla strada, c’è un computer da tavolo, disconnesso ma non distrutto.La stanza da letto di Syed e Tashfeen è quella che apre gli occhi sulla vita di questa coppia, interamente ispirata all’islam. Il libro lasciato aperto sul comodino mette in guardia dagli «Errori riguardo la preghiera». Sulla cassettiera c’è appiccicato uno strano adesivo con scritte in arabo e inglese: «Preghiera – dice – mentre esco fuori dall’armadio», un’espressione che si usa in America quando una persona trova il coraggio di rivendicare la sua identità, come ad esempio fanno i gay che ammettono l’omosessualità. «Sia ringraziato – continua l’adesivo – Allah, che mi ha sollevato dalle sofferenze e mi ha dato conforto». In bella vista c’è anche il certificato dell’Haji, il pellegrinaggio alla Mecca completato da Syed il 15 ottobre del 2013. Vicino, però, c’è anche l’attestato di frequenza per un corso di studi coranici seguito tra giugno e luglio del 2014 dalla madre di Farook, Rafia. Segnali che alimentano il sospetto di una condivisione, se non una complicità, dei famigliari. A partire soprattutto dal fratello di Syed, un ex militare della Marina, che potrebbe averlo aiutato a comprare le armi, magari senza conoscere lo scopo. La sorella Saria ieri ha chiesto scusa: «Non posso immaginare mio fratello e mia cognata fare qualcosa come quello che hanno fatto. Erano felici insieme, avevano una bimba splendida di 6 mesi. È sconvolgente. Mi chiedo se magari, se lo avessi chiamato la sera prima della strage, o la mattina stessa, giusto per chiedergli come stava, cosa stava facendo...».
Documenti in arabo
Sul letto sono sparsi documenti in arabo, patenti di guida, un conto bancario con 52.000 dollari in deposito. Mail stampate che contengono comunicazioni con una moschea. Il soffitto dell’armadio a muro è stato sfondato dall’Fbi, per vedere se nel controtetto erano nascoste bombe. Sopra una mensola c’è un album di foto di Tashfeen e la sua famiglia, quando erano ancora in Arabia, sempre coperta con vestiti tradizionali. Gli inquirenti sospettano che sia stata lei a radicalizzare Syed. È entrando nel bagno, però, che la normalità del male colpisce al cuore. Decine di foto di famiglia, sorridenti, compresa quella di Tashfeen che allatta la figlia. «Due bravi ragazzi molto professionali – giura il padrone di casa Doyle Miller – che vivevano qui da maggio e non mi avevano mai dato alcun problema». Fino a mercoledì, quando hanno lasciato la figlia alla nonna, e sono andati a fare una strage.