Corriere della Sera, 5 dicembre 2015
È morta la mamma di Eluana Englaro
Agosto 1991. L’ultima estate insieme, sulla neve dello Stelvio. Papà Beppino, la moglie Saturna ed Eluana. Padre e figlia felici, in gara sulle piste, Saturna no, perché «per lei esisteva solo il mare». Un ricordo, uno dei tanti, che affollano la mente di Beppino Englaro in un giorno particolare. A sei anni dalla morte di Elu, ora anche Saturna se ne è andata. Da ieri giace accanto alla figlia nel piccolo cimitero di Paluzza (Udine), il paese natale di Beppino. Un pezzo di passato volato via, di fatto una parte di sé. «Che cosa mi resta? Sono l’unico rimasto in piedi, come mi ha detto don Tarcisio ieri (il parroco di Paluzza, ndr ), questo perché siamo figli della Carnia, terra aspra e dura, che però ti tempra».
Rimasto in piedi per dire sopravvissuto. A due tragedie, una nell’altra. Quella di Eluana, vittima di un incidente stradale (1992) e rimasta in stato vegetativo per 17 anni, prima che il padre, dopo una lunghissima battaglia giudiziaria, fosse autorizzato a interrompere i trattamenti di idratazione e alimentazione artificiali che la mantenevano in vita. E quella di Saturna, madre e moglie distrutta dalla disperazione, ammalatasi subito dopo la disgrazia della figlia, di quel dolore che solo chi lo prova può comprendere. Una malattia fisica, entrata nella profondità dell’anima, fino a consumarla. Non prima di aver compreso che la povera Eluana non sarebbe mai più tornata quella che era. «Vivevano in simbiosi, l’una per l’altra». E svanita Eluana, per Saturna fu l’inizio della fine.
E che cosa sarà di Beppino Englaro? «Non ho le idee chiare, ma sicuramente dovrò prendermi cura di me, come mi hanno suggerito». Strano sentirlo dire da qualcuno che ha dedicato la propria vita prima alla figlia e, al di là dei riflettori, a sua moglie. «Un quarto di secolo – precisa Beppino —, ma quello che ho fatto è stato inevitabile. La situazione culturale del Paese mi ha messo nella condizione di agire in una certa direzione e non certo contro qualcuno. Come potevo lasciare mia figlia vittima di una medicina al servizio della non morte?». Parole che ha ripetuto per anni, «come un cagnolino che abbaiava alla luna», che solo una sentenza definitiva della Cassazione ha potuto tradurre in concretezza. «Eluana era un purosangue della libertà, conosceva solo il bianco e il nero, mentre la rianimazione l’aveva costretta in una zona grigia, nella quale non era più lei. Questa è stata la premessa del lungo percorso giudiziario che io e mia moglie abbiamo condiviso fin dall’inizio».
Un passato pesante del quale non sente alcun peso. L’energia è quella della partenza, ma l’approccio è cambiato. «Non sono più il testimone di ciò che è accaduto a mia figlia, non credo di dover raccontare ancora tutto ciò che è stato, in fondo sono stati scritti due libri e una graphic novel rivolta ai giovani, quindi c’è materiale in abbondanza per approfondire il tema. Certo, occorre volerlo. In Italia non sono riusciti a fare una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento per vari motivi, l’istituzione non è stata in grado di dare una risposta ai cittadini, ma credo che la vicenda di Eluana abbia insegnato che anche un singolo può cambiare le cose. In fondo chi era Eluana? Una ragazza forte, tenace, con le idee chiare. Grazie a lei, si è verificato un cambiamento culturale rispetto all’autodeterminazione che oggi avvantaggia chi si avvicina a certi argomenti. Non ci sono più alibi: nessuno di noi è condannato a vivere e gli strumenti ci sono. Ma attenzione, il messaggio è: “lascia che la morte accada”, e non “uccidimi”».