la Repubblica, 5 dicembre 2015
Riscoprire Clemente Rebora
Bellissima idea quella mondadoriana di dedicare un “Meridiano” a Clemente Rebora (“Poesie, prose e traduzioni”, pagg. 1462), uno degli scrittori italiani di inizio Novecento più interessanti e meno conosciuti. Nonostante i giudizi positivi di critici come Contini, Pasolini, Fortini, Mengaldo, e la sua presenza nelle storie della letteratura in quanto “espressionista vociano”, a fare oggi il suo nome si rischia di sentirsi rispondere «Rebora chi?». La biografia gli assegna un ruolo di irregolare e di trasgressivo: non nel senso campaniano del vagabondaggio e della follia, ma in quello non meno inquietante della fede realmente vissuta e della santità. Dopo Il folgorante esordio coi “Frammenti lirici” nel 1913, fu duramente segnato dall’esperienza della prima guerra mondiale: mandato in prima linea e colpito dallo scoppio di un obice, ne ricevette un lieve trauma cranico e uno psicologico ben più persistente. La precedente inquietudine spirituale piegò verso la conversione al cattolicesimo: un lungo travaglio che lo portò a entrare in seminario nel 1931 (ormai quarantaseienne) e a ricevere nel 1936 l’ordinazione a sacerdote. Da quel momento sparì dall’orizzonte letterario, fornendo la sua opera educativa negli istituti rosminiani di Domodossola e Stresa; a parte una breve “resurrezione” poetica poco prima della morte, di lui si sentì parlare soltanto come di un sant’uomo chiuso nel proprio universo religioso, a cui Padre Pio spediva i fedeli del Nord («non venite da me, voi di lassù, andate a Stresa da Padre Rebora!»). Nei Frammenti lirici abbiamo un poeta milanese che canta il disagio della metropoli, filtrando attraverso la Scapigliatura e Lucini la lezione di Baudelaire: macchine, treni, passanti ebeti, cielo come un coperchio. Il suo temperamento è bipolare e oscilla da deliri onnipotenti («avesse la terra una mano/da inanellare e far mia!») a splenetiche aggressività («l’ostinata città irosa/e tutto ha un muro livido di fronte»); da pulsioni anarchiche («e drizzasser le mani ogni nocca/in artigli selvaggi a squarciare/Dio e i scellerati buoni!») a crudi misticismi («Dio feroce nello spazio/guizza di luce e si sdraia/sul nostro patire»). Molti versi memorabili per asprezza e intensità, pochi testi interamente belli; l’unico forse, una delle più belle poesie italiane del Novecento, è quella Voce di vedetta morta del 1916 («C’è un corpo in poltiglia/con crespe di faccia, affiorante/ sul lezzo dell’aria sbranata./Frode la terra./ Forsennato non piango:/ affar di chi può, e del fango», con quel che segue) che si trova nelle antologie ma purtroppo castrata dal suo contesto. Il contesto è il progetto di un libro sulla guerra, composto di poesie e prose liriche: libro che Rebora non completò mai ma che sarebbe stato più potente dell’Allegria di Ungaretti o del Giornale di Gadda. La rabbia per l’ipocrisia dei superiori, l’attenzione per gli ultimi, l’assenza di qualunque retorica pietà, il ribrezzo violento per il corpo putrefatto («Fungaia d’un morto saponava la terra, a divano. Forse tre settimane. Schizzava il corpo, in soffietto, dai brandelli vestiti; ma ingrommata la testa, dal riccio dei peli spaccava alla bocca»). Da questo culmine di tensione esce nel 1922 coi brevi e già poco convinti Canti anonimi, elegiaci e sentenziosi; poi il silenzio o peggio, tantissime poesie brutte, devozionali, scritte per obbedienza e quasi per mortificazione. Voglia di cancellarsi, odio dell’Io se contrapposto a Cristo. Nel 1955, settantenne e malato, scrive un Curriculum vitae sorprendente per modernità: un poemetto realistico che si affianca a quelli dei ben più giovani Pasolini, Roversi, Volponi. Racconta di quando decise di strappare tutte le sue carte per affidarle allo strascée, lo straccivendolo («oh sì che quello fu un gran bel stracciare!»). Seguono l’anno dopo i Canti dell’infermità, dove lo strazio fisico è reso senza sentimentalismi e l’ombra si riaffaccia, estrema tentazione («Ogni voler divino è sforzo nero./Tutto va senza pensiero:/l’abisso invoca l’abisso»). La curatrice del volume, Adele Dei, ha avuto il serio compito di accogliere in parte anche la produzione religiosa e innografica, documentandola per scrupolo storico, ma senza annegarla in una massa informe di scritti non letterari (agende, preghiere, commemorazioni…) che pure erano stati inclusi nelle varie e troppo generose edizioni postume. Lavoro di selezione sempre opinabile ma necessario. Giusto anche il criterio di non rispettare l’ultima volontà d’autore, che spesso fu censoria e moralistica. Su testi che ormai l’autore disapprovava, o dei quali non si curava più, molti sono stati gli interventi esterni che la curatrice correttamente elimina (ma allora perché, proprio nell’ultima poesia, accettare un ultimo verso che la curatrice stessa afferma essere stato “suggerito” da altri ?). Un pregio dell’edizione è la presenza delle splendide traduzioni reboriane (da Andreev, Tolstoj, Gogol): non solo di alto livello stilistico ma utilissime a chiarire (con le “annotazioni” dell’autore) gli anni cruciali di mutamento tra il 1919 e il 1922. Peccato non ci sia una scelta delle lettere, ricche di esaltazioni e di slanci; molte di esse d’altra parte vengono recuperate nelle note, abbondantissime e impeccabili. Opportuno e culturalmente ironico fascio di luce gettato su un’anima che nel 1936 aveva fatto voto «di patire e morire oscuramente».