la Repubblica, 5 dicembre 2015
«Ho affittato il mio utero a una coppia di gay e non mi pento»
«Quello che per me è importante, è che tutti coloro che vogliono una famiglia possano avere questa opportunità». Danielle risponde al telefono dall’altro lato dell’oceano mentre prepara le figlie, di 5 e 8 anni, che sta per portare a scuola. Il marito è a lavoro, lei ci andrà subito dopo. Ha 28 anni, una vita normale e ha deciso – 4 anni fa – di fare in modo che una coppia di omosessuali italiani possano averne una simile. Ha portato in grembo per 9 mesi i loro due figli. Il seme è di uno dei due papà, l’ovulo quello di un’altra donna. Lei ha lasciato che glielo impiantassero e ha portato avanti la gravidanza in California, dove vive e dove i due gemellini sono nati. Per la legge di quello Stato sono figli di entrambi i papà, per l’Italia sono i bambini di un single. Abbiamo raggiunto Danielle grazie all’associazione Famiglie Arcobaleno, i cui iscritti rispettano una carta etica: sono contrari alla “gestazione per altri” quando riguarda donne che vivono in Paesi in cui la loro autodeterminazione può essere compromessa. Nei Paesi del terzo mondo non ci sono regole che tutelino, in casi come questo, la salute delle donne. In Canada o negli Stati Uniti invece le donne che hanno accesso alla gpa devono essere state già madri e non devono essere in condizioni economiche tali da poter pensare che a muoverle sia il bisogno.
Quando ha portato avanti la “gestazione per altri” per i due papà italiani? E perché ha scelto di farlo?
«Nel 2011, 4 anni fa. Un’esperienza che ho scelto perché ho sempre pensato che tutti debbano avere la possibilità di formare una famiglia se lo desiderano».Era già madre?«Avevo già le mie due figlie, che oggi hanno 8 e 5 anni».
Come si è avvicinata a questa scelta? Ha conosciuto persone che non potevano avere figli, è venuta a contatto con qualche associazione?
«Volevo essere una “mamma surrogata” perché mia madre lo aveva desiderato senza averne la possibilità. È una cosa di cui in famiglia abbiamo sempre parlato molto e quando ho avuto dei bambini miei ho pensato che sarebbe stato bellissimo poterlo consentire ad altri».
Ha contattato un’associazione?
«Ho fatto da sola tutte le mie ricerche. Ho trovato un’agenzia di surrogacy qui in California e loro mi hanno fatto conoscere coppie che volevano un bambino. Ho scelto i due papà italiani perché ho capito da subito che mi avrebbero consentito di seguire la crescita della loro famiglia».
Siete in contatto?
«Certo che lo siamo. L’anno scorso sono stata a trovarli in Italia insieme a mia madre e a mia nonna, hanno conosciuto i bambini e abbiamo passato del tempo insieme».
Li ha portati in grembo per 9 mesi, li ha partoriti. Sente di essere la loro madre?
«No. Mi sento come una “zia” (lo dice in italiano, ndr) molto molto speciale. Non hanno bisogno di avermi come madre perché hanno due papà meravigliosi».
Conosceva prima la coppia che ha scelto?
«Io e mio marito li abbiamo conosciuti prima, sì».
Suo marito è stato d’accordo fin da subito con la surrogacy o aveva delle perplessità?
«Assolutamente no, nessun dubbio. Ha sostenuto la mia scelta fortemente fin dall’inizio. E ha un buonissimo rapporto con i genitori dei bambini».
È stata pagata?
«Sì, c’è stato un pagamento. È una cosa molto comune».
C’era un contratto preciso che la garantiva, che sanciva diritti e doveri di entrambi le parti?
«Sì, c’è un contratto».
Era prevista la possibilità di cambiare idea in qualsiasi momento oppure no?
«Sì, c’è la possibilità di cambiare idea, ma non c’è stato un solo momento in cui io abbia pensato di farlo».
Posso chiederle quanto ha ricevuto?
«22mila dollari americani».
Lei ha già due bimbe e due “nipotini” italiani. È un’esperienza che farebbe di nuovo?
«L’ho fatto una seconda volta per una coppia eterosessuale, per una mamma e un papà».
Le sue bambine hanno vissuto con lei le altre gravidanze. L’hanno vista con la pancia, in ospedale. Sanno tutto degli altri bambini?
«Certo, li conoscono. Skype è un grande aiuto per restare in contatto, ci chiamiamo e vediamo molto molto spesso. Le mie figlie adorano quei ragazzi italiani. Hanno legato da subito con i loro papà e vogliono bene ai bambini».
Quando li portava in grembo cosa provava per quei bambini? Come li considerava?
«Avevo certamente un legame profondo con i bambini mentre erano nella mia pancia, ma ho sempre avuto la piena consapevolezza del fatto che avevano altri due genitori».
La gravidanza è un periodo che chi lo ha vissuto descrive come bellissimo, ma faticoso. Lei lo ha attraversato due volte per altre persone. Lo farebbe ancora?
«Condivido quel che dice. La gravidanza è molto molto faticosa e lo è anche il parto. Adesso io lavoro, sto crescendo le mie figlie, ma penso che potrei fare una terza surrogacy».
Dove lavora?
«In un call center».
Al momento del parto, nel 2011, c’erano i papà dei bambini?
«Sono venuti da noi in California tre settimane prima. Abbiamo vissuto insieme gli ultimi momenti della gravidanza condividendo molte cose. Quando li ho visti giocare con le mie figlie, ho capito che tra noi sarebbe andato tutto bene. In ospedale c’erano loro, mio marito, mia madre: una famiglia parecchio allargata».