il venerdì, 4 dicembre 2015
Peñarol, così i piemontesi inventarono il futbol in Uruguay
«Vi dichiaro dunque marito e moglie».
Commozione? Non troppa. Quando alla fine del Settecento si sposava un piemontese più che altro eran felicitazioni.
Quella volta però andò meglio del solito, perché quello non era un matrimonio, era un casamiento, dal momento che lei, la sposa, era una spagnola e, con tanto di mantilla, si sposava in Spagna.
Allora tutto sotto controllo.
Non troppo.
Il piemontese, Giovan Battista Crosa, aveva acquistato dei terreni ad oriente del grande Rio de La Plata, un fiume che anche unendo il Po e il Manzanarre non se ne faceva la metà per ampiezza, e domani ci s’imbarcava per andarci a vivere.
Come sempre gli europei quando arrivavano da quelli parti (ri) battezzavano le terre degli indios con i toponimi dei luoghi da dove provenivano e siccome i Crosa venivan da Pinerolo, quel gran latifondo a 15 km da dove il grande rio ed il mare si confondono, venne chiamato così, Pinerolo. Giusto il ritocco per adattare la pronuncia piemontese del Settecento al castigliano del luogo che li avrebbe ospitati per sempre. Per le popolazioni che occupavano la Banda Oriental, l’Uruguay sarebbe nato più tardi con la fattiva collaborazione di un nizzardo piuttosto noto anche da noi, suonava più o meno così: Peňarol.
Quando Giuseppe Garibaldi fece il suo dovere per meritarsi l’epiteto di Eroe dei Due Mondi, ecco che quelle terre erano già inglobate nel nuovo stato, la Republica Oriental de Uruguay. Uno stato che, un secolo dopo la morte del Giuanèn (1790), manteneva quello spirito intraprendente e dinamico.
Materialmente, era necessario un supporto: giunse d’oltre mare.
Gli inglesi erano specializzati nella costruzione di ferrovie, e scelsero proprio le terre di Peňarol per organizzare l’inizio dei lavori. Diciassette ettari dove si sarebbero edificate le prime fabbriche e di conseguenza sarebbe nato un villaggio che gli inglesi avrebbero voluto ribattezzare New Manchester.
Escluso.
La comunità italiana non l’avrebbe mai permesso. Restava Peňarol.
Nelle non frequenti pause lavorative, i tecnici e gli operai specializzati che avevano attraversato l’Oceano aprivano le valigie e mostravano altri oggetti.
Spuntò un pallone, e cambiò per sempre la storia dell’Uruguay.
Il gioco non sembrava troppo complicato, a tutti quegli emigranti latini giunti alle foce del grande fiume per iniziare una nuova vita.
Appassionava tutti. E tanti furono immediatamente coinvolti nella nascita di una associazione sportiva che prese il nome di Central Uruguay Railway Cricket Club (CURCC).
Peňarol, lì 18 settembre 1891.
I 18 soci di origine inglese e 45 «nuovi uruguayani» controfirmarono il documento che permetteva la nascita della prima associazione calcistica del Paese. Mista. Perché nello stesso anno, un gruppo di inglesi aveva creato la Albion, il cui esclusivo accesso era riservato ai britannici.
Nel maggio del 1892 si sarebbero sfidati: vinse il CURCC, maglia nera-oro per rispettare i colori delle Railway dei sudditi di Re Giorgio V, quelli che arrivavano da Villa Peňarol, che già da subito fu il nome con cui tutti identificavano la squadra.
Ancora oggi, dopo più di 40 titoli nazionali, 5 coppe Libertadores, 3 coppe intercontinentali (scalpi eccellenti: il Benfica di Eusebio e il Reai Madrid di Gento) Peňarol è un nome che è di diritto nelle prime pagine della storia del football, quel gioco che come ben racconta l’adagio ha una madre, l’Inghilterra e un papà, l’Uruguay.
Nei college inglesi ha iniziato a rotolare la palla, ma il calcio è diventata una passione popolareprima di tutto nella zona meridionale del LatinoAmerica e, prima di ogni altro luogo, in Uruguay, non a caso sede del primo mondiale della storia del gioco.
Peňarol è oggi un quartiere di Montevideo. Il Club Atletico Peňarol tornerà a vivere le sue partite casalinghe poco fuori dalla città, nel nuovo stadio che aprirà i battenti nel prossimo febbraio e che si chiamerà «Campeón del Siglo», come ormai tutta la hinchada aurinegra chiama la propria squadra, nel 2009 celebrata dalla Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio (IFFHS) come il club del XX secolo in Sudamerica.
A quelle latitudini nascono sempre storie dove c’è sempre un momento in cui devi deglutire forzatamente e poi respirare profondo.
Sono pieni di commozione quel ristretto gruppo di dirigenti e tifosi del Peňarol che, poche settimane fa, hanno fatto un viaggio in Italia, per visitare la Tierra Sagrada, la città dove, in qualche modo, tutto ebbe inizio.
La scoperta della segnaletica autostradale di quel nome ha decuplicato il loro battito cardiaco. Poi quel cartello, decisamente anonimo e malfatto, ma così carico di significato...
Campo bianco, scritta in nero: PINEROLO.
Città storica del ciclismo, di Giro e Tour de France, con i suoi quattro colli e la partenza da Cuneo, Pinerolo evoca, dall’altra parte dell’Oceano, sulla riva del Rio de La Pòata, oggi un po’ più catramato di quello che aveva accolto il giovane Crosa, un trasporto emotivo che non si riesce a spiegare.
Lo scopo del viaggio: raccogliere un po’ di polvere della Tierra Sagrada, come loro chiamano Pinerolo.
«Questo terriccio sarà ospitato nel nuovo stadio, è in qualche modo parte della nostra storia» racconta Nacho, capo-spedizione della comitiva. «È ormai molto tempo che non possediamo più una casa. Il lieto evento, deve essere celebrato con immagini simboliche forti».
Una sacralità laica che può apparire forse ingenua per alcuni atei del football, ma in Sudamerica e in particolare in Uruguay si vive il calcio in una maniera totale. E con la stessa passione delle origini. Fin da quando, giovanissimi, i ragazzi dei quartieri montevideani di Ciudad Vieja, Centro, Cordón, La Aguada prendevano un treno per andare a vedere il CURCC, a Villa Peňarol. La locomotora partiva la domenica all’una e mezza dalla Stazione Centrale e tornava a fine match in città.
Prima sorpresi poi sempre più preoccupati, alla fine decisamente seccati, i gestori della compagnia ferroviaria inglese si resero conto che lo sport che credevano di avere inventato, era vissuto in maniera un po’ differente, oltre l’Atlantico.
Il Quiet, please è giusto rimasto a Wimbledon. A inizio secolo il treno Montevideo-Villa Peňarol era tutto un vociare. Una partecipazione chiassosa, ma non solo. Su quel treno, l’euforia che si respirava attorno a questo fantastico gioco era unica, e serviva a mettere da parte la fatica del lavoro, la nostalgia di una famiglia, di un affetto lontano, in Italia. Quel gioco ti trasportava in un’altra dimensione, dove non eri mai solo, ma sempre abbracciato a un tuo compagno.
Che è poi la magia del calcio, anzi, la magia del futbol. Visto che il modo di intendere questo magico innamoramento verso il gioco lo hanno sperimentato per primi loro. Forse a cominciare da quei viaggi in treno.
Si accendeva di gioia anche Giuseppe Scarone, emigrato da Savona fino a Montevideo, dove aveva trovato lavoro proprio nelle ferrovie. E subito era diventato tifoso del CURCC-Peňarol, amore prontamente trasmesso ai figli, che lo avevano seguito anche quando il campo di gioco era cambiato.
I treni cominciavano a danneggiarsi con troppa frequenza. Evidentemente, reggevano poco i sommovimenti provocati da salti di quelli che sono i primi tifosi della storia.
Dal Big Ben avevano detto stop.
I dirigenti della ferrovie avevano raggiunto un accordo per trasferire il campo in una zona più vicina a Montevideo, in un terreno denominato Las Acacias, più facilmente raggiungibile. Formalmente, è ancora oggi il terreno di gioco del CURCC, anzi del Peňarol, poiché dopo quel trasferimento, avvenuto nei primi anni del Novecento, si registra il definitivo e finalmente ufficiale cambio di nome del club. Certificato con carta autografa dal presidente della repubblica José Battle y Ordonez, l’uomo che ha guidato la modernizzazione del Paese. Sotto i suoi due mandati presidenziali (1903-1907 e 1911-1915), l’Uruguay adotta una serie di riforme illuminate: il suffragio universale, la nazionalizzazione della maggior parte dei servizi pubblici, col controllo su banche e assicurazioni, l’abolizione della pena di morte, l’abolizione del servizio militare, la separazione tra Chiesa e Stato. L’Uruguay diventa in pochi anni una democrazia consolidata, con una grande attenzione ai temi sociali. Questa «rivoluzione» trascina anche il calcio, che riscuote un immediato successo popolare, anche perché vengono edificati nuovi impianti cui ha accesso tutta la popolazione, senza distinzione di classe.
Giuseppe Scarone sente meno la nostalgia di casa, quando va a vedere il Peňarol con gli amici. Non si perde una partita, ed è tutto un discutere di futbol. E poi il Peňarol continua a vincere; ma la sua soddisfazione non si può misurare il giorno in cui suo figlio Carlos viene aggregato alla squadra del suo cuore. Con lui in campo, vince il campionato del 1911 la squadra dalla maglia nero-oro. Ma non è l’unica che indossa, Carlos.
Il 15 agosto del 1910 c’è ancora lui in campo, ma stavolta con la nazionale uruguayana che per la prima volta nella sua storia veste la gloriosa maglia celeste accompagnata da calzoncini neri. Gli Argentini, gli sfidanti di quel giorno, in palio la Copa Lipton, avevano espressamente richiesto il cambio di colori: il bianco e celeste lo usiamo solo noi, d’ora in poi.
Così gli uruguayani optarono per la tinta unita Celeste, da quel momento diventato un simbolo nazionale distintivo che, come ebbe a dire Diego Lugano, prima del match dell’ultimo mondiale contro l’Italia, «è più importante di giocatori, capitani e risultati e unisce tre milioni di anime». Tre milioni, che ci crediate o no, guardando il favoloso palmares di questa Selección, è il numero della popolazione dell’Uruguay.
In quella squadra che vince la Copa Lipton, segna e brilla Carlos Scarone, per la gioia di papà Giuseppe, ovviamente presente. In campo c’è anche José Benincasa, altro ragazzo di origine italiana, che conosce Carlos fin dai primi calci a un pallone, quando entrambi giocavano al River Plate Montevideo. Continuavano a frequentarsi, tanto che anni dopo Benincasa portò un giorno a casa Scarone una proposta seria: trasferirsi insieme in Argentina. Al Boca Juniors si poteva fare davvero qualche soldo, e nel 1916 non era così scontato fare i soldi col futbol.
In Argentina si ricordavano però lo Scarone della Copa Lipton, mica questo. Carlos giocava in una squadra infarcita di uruguayani più dediti, si disse allora, alla scoperta della città notturna che a spremersi negli allenamenti: si era creato un brutto clima attorno al Boca, che giocò quella che è ancora negli annali come una delle peggiori stagioni della sua storia. Una stagione chiusa con la fuga nottetempo del gruppo di uruguayani, mai troppo digeriti a Buenos Aires.
C’è chi dice che Scarone in effetti stava già male in Argentina e, dopo aver attraversato il Rio de La Plata, fosse rimasto settimane al sanatorio, accudito da un grande tifoso del Nacional, l’altra squadra di Montevideo, nata per volontà di studenti universitari che volevano una compagine di soli giocatori uruguayani. La vicenda dell’ospedale è però apocrifa, non riconosciuta dalla maggior parte dei fedeli del futbol, in Uruguay.
L’unica certezza è che, alla fine, Carlos Scarone, tornato in patria, veste la maglia del Nacional, i principali rivali del Peňarol.
E papà Giuseppe?
Va bene la fuga in Argentina, ma questa no, il Nacional, no.
«Perché non vai al Peňarol, figliolo?». «E cosa vado a fare?». «A – letterale, si usava ancora l’italiano in casa di tutti gli emigranti – mangiare merda?».
L’umiliazione subita da Giuseppe è diventato il segno distintivo del Peňarol, i cui tifosi ancora oggi esibiscono con orgoglio il nomignolo di Manya (Mangia, la pronuncia rioplatense), in ricordo di quell’episodio storico.
Leggenda narra, che nel primo clasico Nacional-Peňarol dopo il ritorno di Carlos dall’Argentina, vinto dal Manya, papà Giuseppe fosse in tribuna, a sostenere la squadra di sempre, il Peňarol e a urlare cose inverosimili al figlio.
A distanza di più di mezzo secolo l’episodio si sarebbe verificato anche nei campetti di Rio de Janeiro. Babbo tifoso dell’America, figlioletto nelle giovanili del Vasco.
Nemmeno dopo il gol Romario ricevette gli applausi di papà Edevair.
Anzi.
Diceva uno dei protagonisti del film argentino Il segreto dei suoi occhi di Juan José Campanella, Oscar come miglior film straniero nel 2010: «Una pasión es una pasión... El tipo puede cambiar de todo. De cara, de casa, de familia, de novia, de religión, de dios. Pero hay una cosa que no puede cambiar. No puede cambiar de pasión».
Più o meno così, Giuseppe.
La cui soddisfazione nel primo clasico fu però effimera.
Carlos convincerà suo fratello Héctor a giocare, lui pure, un altro che accompagnava Giuseppe in treno a vedere il Peňarol, per il Nacional.
Héctor era davvero forte. Anzi, secondo Giuseppe Meazza, che lo ebbe come compagno di squadra all’Ambrosiana Inter, «Scarone è il giocatore più forte che abbia mai visto».
Sarà protagonista di moltissime vittorie della Celeste, Mondiale del 1930 compreso. Ed entrerà nel linguaggio di tutti i giorni una locuzione che lo riguarda. Quando in Uruguay si vuole dare la responsabilità di una scelta ad un’altra persona si dice «Tuya, Héctor», come fece il compagno di Scarone, Tito Borjas, nella finale delle Olimpiadi del 1928 ad Amsterdam, prima di passargli il pallone. Assist che, manco a dirlo, Scarone trasformò nel gol che consegnava la medaglia d’oro all’Uruguay.
Ovunque fosse, papà Giuseppe sicuramente sorrise in quella occasione.
Ovvio: con la sciarpa nero-oro al collo.
Come quella che porteranno i tanti tifosi del Peňarol che presto invaderanno il nuovo stadio, calpestando la stessa terra dei Crosa e dei tanti italiani che hanno contribuito a far nascere l’Uruguay, la vera patria del futbol.