il venerdì, 4 dicembre 2015
Stanno giorno e notte davanti al computer e non escono mai di casa. Ecco chi sono gli Hikikomori
Un mondo fatto di qualche monitor, una tastiera, un joystick e una buona connessione. Funziona così la vita degli hikikomori, i reclusi, i separati, gli invisibili: giovani che salutano il mondo, si chiudono in camera e lì rimangono per mesi e anni. Come fossero asceti tecnologici, eremiti che invece della cella di clausura hanno scelto la rete.
Il fenomeno degli adolescenti autoreclusi è noto dalla metà degli anni 80 in Giappone, dove si stima che i casi siano un milione. Di recente è arrivato anche in Europa, in Francia, in Svizzera, e in Italia, tanto che Antonio Piotti, psicoterapeuta del centro milanese Il Minotauro, da sempre impegnato ad affrontare il disagio adolescenziale, si è occupato del fenomeno e ha pubblicato, con Roberta Spiniello e Davide Comazzi, Il corpo in una stanza (Franco Angeli, pp. 304, euro 34), prima indagine organica sui nostri hikikomori. «Da noi i primi casi si sono presentanti nel 2007» spiega. «In pochi anni però il fenomeno ha continuato a crescere, tanto che a oggi non sappiamo con precisione quanti siano i giovani italiani che si sono “ritirati”. Stime fatte dagli psicologi in base alle loro esperienze ci hanno indotti a pensare che siano tra i 20 e i 30 mila. Il consultorio gratuito del Minotauro di Milano, da solo, accoglie circa 50 casi l’anno. Ma il fenomeno potrebbe essere anche più ampio. Basti pensare che in Francia sono quasi 80 mila».
I sintomi della sindrome hikikomori (letteralmente «stare in disparte, isolarsi», dalle parole giapponesi hiku «tirare» e komoru «ritirarsi») tendono a presentarsi tra i 13 e i 14 anni e sono simili a quelli della depressione, anche se la loro origine psichica è diversa. «Negli hikikomori» dice Piotti «il sentimento più forte è la vergogna: si vive come un fallimento la distanza tra le aspettative che si avevano per sé e la realtà. Quanto più grande è la distanza tra ciò che si era idealizzato e fantasticato e la vita vera, tanto maggiore è la vergogna che si prova».
Così, nell’incapacità di reggere il confronto tra l’idea che si aveva di sé e la realtà, si dice addio ai ritmi circadiani, ci si barrica in camera e lì si passano giornate e notti sui social network o sui giochi di ruolo, con cibo spazzatura, da mangiare un po’ quando capita, rinunciando ai pasti in famiglia e alla socialità. Quanto questo disagio, o almeno questi sintomi, siano figli dei nostri tempi iperconnessi, è difficile da dire.
«Ci sono due teorie» dice Piotti: «secondo la prima gli hikikomori nascono per colpa della rete, che li attira a sé e allontana dal mondo “vero”. La seconda, invece, che mi convince di più, sostiene che i ragazzi stanno male a prescindere e allora si rifugiano nella rete. Non bisogna demonizzare il web, che in questi casi rimane l’unico modo per fare esperienze, anche se virtuali. Ed è anche quasi l’unica strada dalla quale possono arrivare l’aiuto di un terapeuta e la salvezza».