il venerdì , 4 dicembre 2015
Qual è la differenza tra un bancario e un venditore? Nessuna. Metamorfosi di un mestiere
C’era una volta il bancario. Era il tranquillo impiegato o funzionario di banca, che faceva sempre le stesse cose. Arrivava alla mattina in ufficio e aggiornava il timbro per mettere la data sui moduli. Affilava le forbici per tagliare le cedole dei titoli di Stato. Oppure guardava un po’ i conti di un’impresa alla quale la banca aveva fatto un prestito, e magari alzava il telefono per chiamarne il titolare e chiedere qualche spiegazione. Se faceva carriera diventava dirigente, cioè prendeva le pratiche che una segretaria aveva depositato sulla sua scrivania in una cassettata con scritto «entrata», le firmava e le metteva in un’altra cassettina con scritto «uscita». Insomma, la vita del bancario non era eccitante, ma si guadagnava bene e il posto era sicuro.
Oggi tutto è cambiato. Chi sta allo sportello deve convincere la clientela a comprare prodotti finanziari difficili da decifrare (anche per lui). Deve fare finta di sapere dove sta andando l’economia, non solo quella italiana ma anche quella dei Paesi più lontani, perché c’è il cliente che vuole investire sui mercati asiatici. Deve rendere conto a nuove autorità di controllo, spesso internazionali. Senza dire che il posto di lavoro non è più sicuro come una volta, almeno per le nuove leve. E la parola licenziamento è diventata una possibilità tutt’altro che remota.
Perché da qualche tempo le cose sono cambiate. Il bancario tipo lavorava nelle banche come le conoscevamo fino all’inizio degli anni Novanta, quando c’era ancora la foresta pietrificata. Si chiamava così perché l’apertura di nuove filiali bancarie era rigidamente governata dalla Banca d’Italia, che la programmava con i «piani sportelli», che richiamano alla memoria i piani quinquennali delle defunta Unione Sovietica. Il sistema bancario era suddiviso in diversi tipi di istituti, ognuno con i suoi compiti: le banche commerciali facevano i prestiti a breve termine e gli istituti di credito speciale quelli a lungo termine. Poi c’erano le banche popolari, cooperative, ecc.
Niente concorrenza: una rigida separazione e la spartizione del mercato garantivano che nessuno andasse a invadere il campo altrui. Né le autorità si curavano che le banche si facessero concorrenza tra di loro, pensando che ciò avrebbe minato la loro sicurezza. Non si poteva neanche immaginare che una banca estera potesse portare un po’ di aria nuova in questo tranquillo mercato domestico. Essere al riparo dalla concorrenza tutelava le banche che potevano fare lauti profitti grazie alla differenza tra i tassi d’interesse che facevano pagare ai loro debitori e quelli che loro stesse pagavano ai depositanti: il cosiddetto «margine» era ampio e stabile. Questo consentiva agli istituti di credito di avere un eccesso di personale e di pagarlo bene. I sindacati dei bancari avevano vita facile a chiedere consistenti aumenti di stipendio ad ogni rinnovo contrattuale. Ma tutto questo aveva un risvolto negativo, dal punto di vista della clientela. Un margine ampio vuol dire che chi riceve prestiti (imprese e famiglie) paga un tasso d’interesse alto e chi deposita i suoi risparmi in banca riceve un tasso d’interesse basso. Non solo: cambiare banca era difficile e anche poco conveniente, visto che tutte applicavano più o meno le stesse condizioni.
Durante gli anni Novanta il panorama è cambiato, anche sotto la spinta dell’Europa. La spartizione del territorio e la rigida distinzione tra tipi di banche sono stati abbandonati. Sono nate la cosiddette «banche universali», che possono offrire una vasta gamma di prodotti finanziari: prestiti su tutte le scadenze, servizi di gestione del risparmio, prodotti assicurativi. Sono state aperte le frontiere, consentendo alle altre banche europee di venire a fare concorrenza a quelle italiane. Inoltre sono state introdotte misure per facilitare il trasferimento dei depositi e dei mutui da una banca all’altra. Tutto questo ha portato il vento della concorrenza a soffiare anche nelle filiali dei nostri istituti di credito, rendendo la vita del bancario meno tranquilla.
La maggiore concorrenza ha via via ridotto il famoso margine sulla tradizionale attività di raccolta di depositi e concessione di prestiti. Le banche hanno reagito su due fronti: dal lato dei costi e dal lato dell’offerta di prodotti. La compressione dei costi è diventato il primo imperativo della gestione bancaria, al prezzo di forti tagli del personale e di riduzione delle retribuzioni, in particolare per le nuove leve di bancari, meno protette dei loro colleghi più anziani. Il secondo obiettivo è stata la ricerca di nuove fonti di ricavo: principalmente servizi di gestione del risparmio (fondi comuni, polizze, ecc.) sui quali guadagnare commissioni anziché interessi. Questo implica che il nostro bancario diventa sempre di più un venditore di prodotti: sapere fare le operazioni tradizionali non basta più, bisogna convincere il cliente che il prodotto finanziario della propria banca è migliore di quello offerto da un’altra. Se tutto ciò ha complicato un po’ la vita del bancario, ha anche portato qualche beneficio alla clientela, proprio grazie alla riduzione del margine d’interesse e ai nuovi servizi offerti dalle banche. Poi è arrivata la crisi finanziaria e la vita è diventata più complicata per tutti: banche e clienti.
La fase iniziale della crisi, esplosa nel 2007, ha risparmiato le banche italiane, meno esposte di altre alla finanza innovativa: i famosi prodotti derivati. Quando però la crisi ha investito il settore reale dell’economia, generando fallimenti a catena, anche le nostre banche hanno cominciato ad accumulare perdite sui prestiti che avevano concesso: le «sofferenze», del gergo bancario. Concedere prestiti è diventato più rischioso, quindi le banche hanno cominciato a selezionare i debitori in modo più severo. Nello stesso tempo, la banca centrale ha reagito alla crisi portando i tassi d’interesse ad un livello quasi nullo. Il margine d’interesse si è quindi ridotto al lumicino, poiché la materia prima su cui lavorano le banche, cioè il denaro, non costa più niente.
Il doppio imperativo, ridurre i costi e offrire nuovi servizi, è diventato ancora più pressante. Ecco allora perché assistiamo a drastici piani di riduzione del personale. Solo un esempio: Unicredit ha da poco annunciato un taglio di 18.200 dipendenti, di cui 6.900 in Italia. Ma la sfida maggiore è quella di sfruttare meglio le nuove tecnologie. Queste possono servire per distribuire prodotti finanziari e per fornire servizi di pagamento, come già avviene. Ma possono anche essere usate per inventare nuovi prodotti, come le «app» bancarie. Per questo il personale deve essere in grado di padroneggiare le tecnologie informatiche, e questo è un vantaggio per le nuove generazioni, mentre crea qualche problema agli overfifty. Ma chi lavora in filale deve anche essere in grado di offrire quello che le macchine non possono fare: in primo luogo, consulenza personalizzata e attenzione alla relazione con la clientela.