il venerdì , 4 dicembre 2015
Come vivono i 36mila postini d’Italia
C’è Giovanni, il postino umanista, lettore di Pavese e Fenoglio, che recapita ad Alba nel Villaggio Pinot Gallizio, dove vivono i nomadi. A San Luca, sull’Aspromonte calabrese nel cuore delle ’ndrine, c’è un portalettere comunista che sembra Mario Jimenez, quello del libro di Skármeta da cui è tratto il famoso film Il postino: un modo di parlare alla Troisi, non finisce mai le frasi, eppure filosofeggia citando a memoria Gramsci e dilettando l’interlocutore con Campanella e Giordano Bruno. Poi c’è Sauro, il postino di Montefortino, paesino sui Monti Sibillini nelle Marche: in inverno le strade sono ghiacciate e ricoperte di neve, non è facile raggiunger tutti, e allora ha segnato su un quaderno i numeri dei suoi «clienti», così può chiamarli e mettersi d’accordo con loro per le consegne. Sono i portalettere d’Italia, che meglio di altri possono raccontarci il nostro Paese e come è cambiato. Li ritroviamo nel libro di Angelo Ferracuti Andare. Camminare. Lavorare. L’Italia raccontata dai portalettere, in libreria dal 12 dicembre (Feltrinelli, pp. 352, euro 18).
«Un giorno mi chiama Pierluigi Celli, Senior Advisor di Poste Italiane», racconta Ferracuti, che oltre a esser affermato scrittore è anche dipendente da oltre trent’anni delle Poste. Ed è una storia che forse non si sentiva dai tempi della gloriosa Olivetti. Celli voleva un reportage letterario: raccontare l’Italia come in passato avevano fatto Zavattini, Soldati o Piovene. Una narrazione nella quale lo scrittore non deve dimostrare nulla, soltanto dar voce a ciò che vede. Ed è così che per sei mesi Ferracuti, sostenuto dall’azienda che gli ha dato massima libertà, ha viaggiato per il nostro Paese per raccontare le tante Italie viste dagli occhi dei postini.
Un libro che ancor prima di uscire è già un bestseller, considerando che Poste Italiane ha deciso di regalarlo a tutti i suoi dipendenti e ne ha ordinate più o meno 150 mila copie. «È una sorta di istant book scritto sui treni, sopra gli aerei, seduto nelle stazioni, in albergo. Affrontando la complessità attraverso il frammento», ci dice l’autore.
Ma chi sono oggi i postini? Un tempo consegnavano la lettera della fidanzata, una cartolina dagli amici in viaggio, cose piacevoli insomma. Motivo per cui erano attesi con gioia. Oggi invece non è più così: la comunicazione passa per gli strumenti tecnologici mentre il postino, come confidano diversi personaggi del libro, consegna per lo più promozioni commerciali o pessime notizie (come qualche cartella di Equitalia e multe inaspettate). «In effetti quella del portalettere è una figura professionale costretta dall’epoca a cambiare pelle. Ora usa il palmare, può far pagare le bollette, prendere in consegna raccomandate, consegnare i medicinali». In Italia ci sono circa 36 mila postini, il 44 per cento femmine e il 56 per cento maschi, di cui quasi il 60 per cento con il diploma di scuola media superiore e il 3 per cento con la laurea, con una anzianità media di 46 anni. Sono tutti dotati di un mezzo aziendale, che può essere la bicicletta, lo scooter, il free duck ad alimentazione elettrica (usato nelle aree metropolitane), l’automobile, mentre nelle isole si spostano su motoscafi o gommoni.
Certo, è innegabile il declino della corrispondenza cartacea con un crollo dei volumi negli ultimi cinque anni del quasi 40 percento. Eppure questa figura ricopre ancora un ruolo importante, perché il postino è spesso il massimo conoscitore dei luoghi e delle comunità, è il grande fratello naturale del quartiere. «Il portalettere è una specie di spugna sociale capace di assorbire gli umori dei luoghi. Percepisce le trasformazioni più di altri, può dirti cosa è successo in un posto negli ultimi cinque anni perché l’ha vissuto, tutti i giorni, da osservatore. Sa chi delinque, chi spaccia, chi è una brava persona, è al corrente di molte cose, è “uno del tessuto” come mi ha detto uno di loro».
Una costante di tutto il racconto: la messa a fuoco di una condizione di crisi. Come quella prospettata da Franco, che consegna a Vigliano Biellese, nel centro dell’industria tessile dove un tempo in ogni casa c’era un laboratorio. Oggi sono chiusi, le piccole aziende fallite, e Franco confessa: «Adesso la gente è molto arrabbiata, ti dicono che manca il lavoro, hanno paura se arriva qualcosa da firmare. Solo qualche anno fa era diverso».
Il viaggio di Ferracuti è partito dalla cittadina dove vive e lavora, che per un viaggiatore ha un nome perfetto e affascinante: Fermo. «Questo piccolo paese delle Marche è da sempre il mio baricentro, il luogo da dove scappare e sempre però ritrovarsi. Che è la condizione dei provinciali, radicati nei posti dove sono nati e che magari dicono di detestare perché chiusi, claustrofobici, pettegoli. Ma dei quali non possono fare a meno. Fermo ha un nome che intriga i viaggiatori, come il grande fotografo Mario Dondero, che considero mio maestro: dopo aver girato in mezzo mondo ha preso casa proprio qui, nel quartiere più popolare della città. Quando gli ho parlato di questo lavoro mi ha detto: “Bene, allora ti farai molti amici”. Voleva dire che il risultato estetico è secondario».
In un mondo che tutti vogliono uniformato, veloce, il racconto dell’Italia vista oggi dai postini è controtendenza: «La così detta globalizzazione non è riuscita a cancellare certe culture profonde, i dialetti, il folclore, nonostante l’omologazione della società dei consumi di cui parlava Pasolini, ahimè diventato anche lui una merce da celebrare», continua Ferracuti. E ammonisce anche su una certa immagine stereotipata affidata al sentito dire. Come sulle periferie d’Italia, che da Torino Mirafiori passando per Pietralata a Roma fino allo Zen di Palermo vengono tutte messe insieme nel calderone di decadenza e abbandono. «Le cose sono più complesse. Le periferie, gli universali non-luoghi, sono l’espressione urbanistica del mondo che viviamo. Sono i luoghi dove si possono vedere meglio le contraddizioni. A Mirafiori, che non scherza in quanto a grigiore, mi è bastato osservare la portalettere per capire cosa è successo o sta succedendo lì ora. Da una parte della via c’erano i civici dei torinesi classe media, mediamente abbienti, dall’altra quelle dei meridionali ex operai Fiat, cassaintegrati e disoccupati che ricevevano le cartelle esattoriali e scendevano dai piani imprecando. Credo che la televisione e il cattivo giornalismo hanno abbandonato quella cosa che su Diario Enrico Deaglio chiamava “inchiesta vecchio stile”. Per questo guardano ai luoghi in modo, appunto, televisivo, come fossero già virtuali. E diventa una finzione della finzione stereotipata».
E se per cogliere lo spirito del luogo è necessario camminarci, attraversarlo, allora il postino non è soltanto un moderno flâneur capace di osservare meglio di altri; è egli stesso testimone del corpo sociale che lì vive, ed è capace di immedesimarsi con esso. Per esempio il racconto del meraviglioso postino Vittorio, che consegna nel centro storico di Genova: sembra uscito da una canzone di De André, tanto che camminando con lui si assiste alla profana processione con le puttane storiche che hanno conosciuto il cantautore e alle quali si è ispirato per le sue canzoni. O anche Mimmo, che trova il suo buonumore consegnando nei Quartieri Spagnoli di Napoli: «Questu è nu teatro tutti li jorni». Non a caso Ferracuti scrive che Poste Italiane è l’ultima azienda che ha ancora un contatto reale con le persone. «Provi a contattare una compagnia telefonica, o anche un’azienda che fornisce energia: avrà a che fare soltanto con voci registrate. Ormai molte aziende hanno un rapporto con il cliente che passa per le tecnologie ed è etereo. Poste Italiane ha un radicamento nel territorio italiano massiccio, non c’è un luogo dove non ci sia un ufficio postale o un portalettere. Mi ha colpito per esempio la postina dell’Aquila, quando racconta che dopo il terremoto per i senzatetto la vita è ricominciata quando è arrivato il postino. Questa missione storica e sociale è ancora fortissima ovunque, e i portalettere non sono solo erogatori di servizi, o la parte terminale dell’azienda che incontra il cliente, ma conservano anche un elemento forte di umanità. Il postino arriva a casa tua e ha pure un corpo, due occhi».
Volendo fare un bilancio, il racconto di questi testimoni d’eccezione del nostro Paese e delle sue moltissime sfaccettature, non è tutto negativo poiché le storie di comunità felici o che comunque non si sono mai lasciate sopraffare dallo sconforto ci sono. E pure molte, tanto a Nord quanto a Sud. Certo, ritroviamo in queste pagine la scomparsa dell’Italia industriale, soprattutto al Nord, ma non solo, dove allo stesso tempo resiste fortemente, e in alcuni casi rifiorisce, l’agricoltura. «Il quadro che emerge è che, nonostante tutto, c’è ancora una grande qualità della vita in Italia. Non è la retorica del Paese del sole, ma è innegabile che viviamo una nazione esteticamente unica e sorprendente. Per non parlare del buon mangiare e del buon bere, della nostra straordinaria gastronomia, del nostro modo di vivere. Allo stesso tempo emerge una certa immutabilità nei nostri antichi vizi, che sono sempre gli stessi e ci impediscono di essere il Paese virtuoso che potremmo essere. Lo descrive bene un’espressione di Kapuciski mutuata dallo storico Braudel: il processo storico è come un fiume. Ciò che si trova in superficie scorre veloce mentre ciò che si trova sotto va più lentamente.
Tutto corre veloce al presente, ma allo stesso tempo le vecchie mentalità, le strutture radicate, restano stabili. Credo sia così».
I postini, che soprattutto nell’estesa e consistente provincia italiana sono depositari di un sapere sulle comunità e i loro abitanti, rimangono una figura interessantissima. E se Ferracuti ci racconta com’è l’Italia vista da loro, sarebbe altrettanto interessante sapere cosa pensiamo noi italiani dei postini. Perché, come diceva Ennio Flaiano parafrasando McLuhan, «se abbiamo ben capito non dobbiamo più aprire le lettere: è il postino che dobbiamo leggere».