il venerdì, 4 dicembre 2015
Storia della Natività del Caravaggio
Questa è una storia nera, piena di genuine emozioni italiane, con un cast d’eccezione e una specie di lieto fine. La trama inizia a Palermo quarantasei anni fa, si ramifica nel Salernitano e in Liguria, sosta per qualche tempo in Spagna e la settimana prossima, sempre a Palermo, dovrebbe conoscere un simulacro di epilogo. Ripercorriamola a ritroso dal penultimo atto.
Novembre 2015. In un vicolo senza nome di San Blas-Canillejas, periferia industriale di Madrid, c’è un agglomerato di capannoni con dentro strana gente operosa. Sono artisti, ingegneri, storici, creatori di software. Che fanno? Prove di re-materialisation, rimaterializzazione. Detto così suona spiritico. Ma al posto di tavoli levitanti e pendolini vedi in giro stampanti 3D, laser a luce bianca, apparecchiature fotopanoramiche... Diavolerie digitali che negli ultimi mesi sono state mobilitate per ridare vita a un’unica creatura: la Natività di Caravaggio, capolavoro di datazione imprecisata ma di sparizione certissima, visto che fu rubato a Palermo, Oratorio di San Lorenzo, nell’ottobre del 1969. Da allora è missing, forse l’opera d’arte più ricercata al mondo. Riprodurla sembrava obiettivo inaccessibile perfino per i maestri donatori di Factum Arte, il laboratorio madrileno capitanato dal britannico Adam Lowe che in quindici anni di attività si è fatto un nome nella fabbricazione di facsimile hi-tech. Dalla tomba di Tutankhamon duplicata a Luxor alle Nozze di Cana di Paolo Veronese ricollocato in copia nel veneziano monastero di San Giorgio dal quale i liberatori napoleonici lo saccheggiarono per incamerarselo al Louvre.
Ora, tanto la camera mortuaria del faraone quanto la maxi-tela di Veronese saranno pure complicatissime da riprodurre, ma almeno ancora esistono. Che fare invece quando, come nel caso della Natività, l’originale latita? Del quadro di Caravaggio non restano che una manciata di foto: quella a colori, formato cinque centimetri per quattro, scattata da Enzo Brai poco prima del furto, e le precedenti immagini realizzate dall’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro che sono stampate su vetro, ma in bianco e nero, e si focalizzano su dettagli dell’opera documentandone appena un trenta percento. È il gramo materiale da cui sono ripartiti quelli di Factum Arte per resuscitare la Natività e riportarla tra i mirabolanti stucchi dell’oratorio palermitano.
Il prossimo 12 dicembre la copia di lusso prenderà il posto del triste ingrandimento fotografico che da anni sostituisce l’originale.
Ideata e finanziata da Sky Arte, che la racconterà in un documentario in onda il 6 gennaio 2016, l’Operazione Caravaggio ha prodotto una tela-sosia elaborata con procedimenti digitali e rifiniture a mano. Costo dell’oggetto, circa 100 mila euro. A Factum Arte vanno fierissimi del risultato. Per mesi si sono scervellati nella ricostruzione dei particolari, dalla paglia su cui è steso Gesù bambino ai capelli di San Giuseppe all’angelo che precipita in picchiata sul gruppo adorante con in mano lo striscione Gloria in excelsis Deo. Per restituire i colori originari sono state d’aiuto le scansioni che pochi anni fa il laboratorio aveva effettuato sul trittico caravaggesco custodito nella romana San Luigi dei Francesi. Certo, per quanto sofisticata, qualsiasi replica contiene una quota di approssimazione, ma negli interventi di restauro non succede forse lo stesso? ricordano a Factum Arte.
A Palermo un facsimile riempirà il vuoto lasciato dal dipinto sparito, però fino a che punto è giusto usare copie come stuntmen per proteggere gli originali ancora conservati? È una quaestio talmente vexata da spingerti a girarne accuratamente alla larga. Meglio tornare al plot del Caravaggio fantasma. Anche perché a pochi giorni dalla razzia messa a segno vicino a Verona – diciassette opere rubate tra cui Tintoretto, Rubens, Mantegna – quella vecchia vicenda ridiventa di colpo giovane e istruttiva.
Anno 1969. L’Italia è in pieno Autunno caldo. Per strada si mena, si spara, si ammazza. Nella notte tra 17 e 18 ottobre a Palermo piove. Dopo aver fatto saltare la stanca serratura con un coltello, due uomini si introducono nell’Oratorio di San Lorenzo, via dell’Immacolatella numero 3. Il tempo di rimuovere la tela con una lametta e la Natività non c’è più. In un’atmosfera da Grisbi alle sarde, il dipinto viene arrotolato e portato via su una motoape.
Ad accorgersi che sopra l’altare manca qualcosa sono le sorelle Gelfo, perpetue del parroco don Benedetto Rocco. Il prete dà l’allarme con grande calma, prima chiamando l’arcivescovo, gerarchia oblige, e solo poi il Sovrintendente alle belle arti di Palermo. È lui ad avvertire la polizia. Tra i primi a denunciare il furto sulla stampa, il giornalista Mauro De Mauro, che l’anno successivo andrà a raggiungere il quadro di Caravaggio nel buco nero dei desaparecidos siciliani. Anche Leonardo Sciascia reagisce subito. In un articolo urticante pubblicato a caldo sempre sull’Ora invita lo Stato a rinunciare «totalmente e definitivamente alla custodia e manutenzione delle opere d’arte» come pure «dei manoscritti e dei libri rari», data la manifesta incapacità di difenderli. Due decadi più tardi, Sciascia farà allusione al «famoso quadro» nel suo ultimo romanzo che in barba a un intrigo complicatissimo si intitolava Una storia semplice (1989). «È in quegli anni che, con i primi pentiti, comincia a delinearsi la pista del furto mafioso» ricorda Attilio Bolzoni, giornalista di Repubblica.
Sul giallo della Natività sta scrivendo il testo di uno spettacolo che il 5 e 6 marzo andrà in scena con musica e video al teatro Massimo di Palermo. Indubbiamente di spunti narrativi ce ne sono. Perché nei racconti dei boss il dipinto è diventato entità quasi soprannaturale, ubiqua, un Graal usato a seconda come simbolo di potenza, strumento di pressione o ricatto. Non per niente Giovanni Brusca provò a negoziarne la restituzione per farsi ammorbidire il 41 bis.
Ma non c’è star di Cosa Nostra che, in termini più o meno criptici, non abbia tirato in ballo la Natività. C’è chi dice che sarebbe stata immediatamente consegnata a quel fine secentista di Gaetano Badalamenti e poi, errando di Bontate in Calò, utilizzata tipo trofeo per arredare i summit della Cupola. Magari in presenza dell’immancabile Giulio Andreotti («Andava pazzo per un certo quadro...»). Altri giurano che Gerlando Alberti, detto u Paccarè, avrebbe sotterrato l’opera insieme al gruzzoletto accumulato in una vita di sforzi: due milioni di dollari più qualche chilo di eroina. Altri ancora assicurano che, negli anni ruggenti, Totò Riina usasse la tela come scendiletto. Nel 2003 una soffiata segnala che la Natività è in vacanza vicino Ventimiglia, pronta a trasferirsi in Francia. La polizia irrompe in una villa, ma invece del Caravaggio trova L’adorazione dei Magi di Parmigianino che era uccel di bosco dal ’94. Nel frattempo, il chimico della mafia, Francesco Marino Mannoia, in arte Mozzarella, s’è attribuito l’esecuzione del furto rivelando però che, danneggiata nelle manovre di asporto, l’opera è andata distrutta. Versione confermata in seguito da Gaspare Spatuzza, ma con più sfiziosa dovizia di dettagli: nascosta in una stalla, la Natività è «stata mangiata dai topi e dai maiali» e poi bruciata.
Gli ultimi avvistamenti del dipinto risalgono agli anni Ottanta. In The Caravaggio Conspiracy – discusso bestseller che nell’84 anticipava Dan Brown e la piaga sociale dei mystery a sfondo pittorico – l’inglese Peter Watson riferiva di una Natività trasmigrata in terre di Camorra. Vicino Laviano, Salerno, qualcuno stava addirittura per fargliela vedere, senonché il terremoto in Irpinia aveva seppellito tutto. Mannaggia. La pratica 799 – così l’affaire è classificato in codice dagli inquirenti – resta aperta.
Queste e molte altre chicche le trovate raccolte in Il Caravaggio rubato. Mito e cronaca di un furto, prezioso libro di Luca Scarlini pubblicato pochi anni fa da Sellerio. Insieme a quello di Alvise Spadaro (Il Caravaggio scomparso, edizioni Bonanno) è il più affidabile in circolazione. «Mafia, politica, rapporti tra Stato e Chiesa... Quella della Natività» dice Scarlini al Venerdì, «è una storia che fotografa l’Italia, ma che oggi – in tempi di distruzioni e saccheggi targati Is – acquista un nuova attualità internazionale. Si sa che certi regimi sedicenti iconoclasti fanno mostra di cancellare le opere d’arte per poi rivendersele sottobanco». Cosa nostra o chi per lei potrebbe aver fatto lo stesso? «Non lo si può escludere. È successo che siano rispuntati dipinti considerati definitivamente perduti». Nel frattempo anche i gusti della mafia si sono postmodernizzati: «Beh, pare che Matteo Messina Denaro sia ateo. E che all’arte antica preferisca Warhol».
Nell’Italia dove ormai ogni minimo borgo ha il suo bravo ispettore – letterario o televisivo – che viene a capo di qualsiasi mistero, il pasticciaccio del Caravaggio palermitano è un ottimo antidoto all’oppio della fiction. Quasi mezzo secolo dopo, sul colpo grosso in via dell’Immacolatella non si ha praticamente alcun elemento certo. Nemmeno il più banale. Se i ladri erano solo due, come fecero a staccare dalla pesante cornice un quadro di 298 centimetri per 197 piazzato in cima a un altare? Che diavolo di lametta usarono? Dicono che la tela fu arrotolata, ma in che modo, se è vero che per restaurarla l’avevano irrigidita con i consolidanti? E davvero quella notte pioveva?
Sotto un tale diluvio di bufale e leggende, riguardi la Natività – fosse pure in copia – e ti fa ancora più tenerezza. Con la sua Madonna plebea che pare la Ferilli degli albori; e quel giovane Giuseppe coi capelli di un biondo quasi ossigenato alla Bowie; e San Lorenzo, San Francesco con il vecchio accanto, tutti in contemplazione di un bebé che Roberto Longhi descrisse «miserando, abbandonato a terra come un guscio di tellina vuota». Bella anche come metafora del patrimonio italiano.