Avvenire, 4 dicembre 2015
Calciatori che si mettono a dipingere (vedi Durante, Meroni, Benedetti, ecc.)
Di poeti del gol, dall’amateur Pier Paolo Pasolini passando per il concittadino, il “Best di Casarsa” Ezio Vendrame, fino al dribbling e il cross lirico di Claudio Sala, la storia del calcio è fornita ed informata. Meno forse sì sa sulla presenza artistica di calciatori che dipinsero la loro anima su tele tutt’altro che anonime. È il caso di Enrico Paulucci che sicuramente è più conosciuto come artista appartenente al celebre “Gruppo dei sei” di Torino che non come calciatore. Genovese come il mitico portiere del Grifone Giovanni De Prà (il cui Volo divenne una scultura di Francesco Messina), arrivò bambino sotto la Mole (dove morì a 98 anni nel 1999) e prima di aprire lo studio con Felice Casorati e di fondare il Centro delle Arti, si era laureato in legge e in scienze economiche. Ma nel suo curriculum, in presentazione al catalogo della Seconda Quadriennale d’Arte di Roma del 1935 si vantava dei nobili trascorsi da «portiere della prima squadra della Juventus». Un traguardo di tutto rispetto per l’allora giovane Paulucci, e non a caso passando in rassegna la ventina di opere dedicate al calcio il critico d’arte Luca Beatrice rileva con entusiasmo: «Nel momento in cui uno giochi nella Juventus è come se raggiungesse la mostra al Guggenheim di New York, cioè i vertici dell’arte mondiale». Il Guggenheim in questi giorni (fino al 6 gennaio) celebra il genio di Alberto Burri che, prima di diventare l’artista celebre in tutto il mondo per i cretti e le combustioni, aveva giocato da attaccante nella squadra della sua città, il Città di Castello. Una passione, quella per il calcio, che una volta appesi gli scarpini al chiodo proseguì come frequentatore assiduo dello stadio Renato Curi, al seguito della sua squadra del cuore, il “Perugia dei miracoli” del presidente Franco D’Attoma e dell’allenatore Ilario Castagner, i quali divennero alcuni dei suoi collezionisti nel mondo del calcio.
Calcio e arte è un connubio che affonda le radici storiche nella figura di Domenico Maria Durante (Murazzano 1879-Torino 1944), il primo portiere artista, il secondo estremo difensore nella storia della Juventus. Durante venne invitato più volte alla Biennale di Venezia e il suo legame con i bianconeri proseguì in veste di illustratore del mensile “Hurrà Juventus” che, durante la Prima guerra mondiale, fungeva oltre che da giornale sportivo anche da “bollettino” che informava delle condizioni dei calciatori al fronte. Dopo il pioniere Durante e Paulucci, anche Ezio Sclavi, classe 1903 (nato a Montù Beccaria), toccò l’apice in campo giocando da portiere, nella Lazio. Al militare Sclavi bastò una partitella tra commilitoni per con- vincere i dirigenti della Lazio a tesserarlo. Il sogno di un portiere degli anni Venti era quello di diventare un professionista nei club del nord e magari “rubare” il posto al grande Giampiero Combi. Ma la porta del numero 1 bianconero venne chiusa a doppia mandata, prima per Paulucci e poi per Sclavi che nella stagione 1925-1926 comunque bussò e venne fatto entrare alla Juventus. Una sola partita con la maglia della Vecchia Signora per poi tornare alla Lazio da protagonista. Le prestazioni eccellenti di Sclavi indusse- ro il selezionatore Vittorio Pozzo a chiamarlo in Nazionale: debutto in azzurro nel 1931, a Torino, contro l’Ungheria. Quella convocazione suscitò la critica del giornalista Ennio Mantella sul “Littoriale”, ma Sclavi accecato dall’ira se la prese con un altro giornalista, Eugenio Danese, schiaffeggiandolo pubblicamente. Danese, provetto schermidore, chiese riparazione all’onta subita sfidandolo a duello e il portiere pur non avendo mai impugnato una spada ebbe la meglio ferendo il giornalista al gomito e chiudendo lì la questione.
Il passionale Sclavi con il suo «fiero e violento spirito agonistico» in campo, fuori covava già il sacro fuoco per l’arte che gli aveva trasmesso l’amico pittore Corrado Cagli, il quale notò in lui «la fulminea volontà della pittura». Così, nel triennio 1933-1936 dipinge ed espone in importanti gallerie di Roma, Milano e Parigi, affascinando lo scrittore Massimo Bontempelli ed entrando di diritto, secondo la critica francese, nella “École de Rome” assieme agli ormai colleghi Cavalli, Capogrossi e Cagli. Una cifra sicuramente originale quella del portiere della Lazio che dallo studio della Pietà di Michelangelo realizzò il quadro Il calciatore ferito.
Sclavi, ferito in uno scontro di gioco ad Alessandria, stoico continuerà a giocare con la testa bendata da un vistoso “turbante”. Eroico anche sul campo di battaglia: nella guerra d’Etiopia, il portierone venne fatto prigioniero, ma anche in Africa non smise di coltivare le due passioni: il calcio (Sclavi fu allenatore giocatore e vinse tre campionati con club etiopi, «giocando centravanti») e la pittura realizzando opere come la serie Giovane africano, datata 1942. In quello stesso periodo a Roma, sponda giallorossa, arrivò una promessa del Treviso, il ventunenne terzino Cesare Benedetti. Il “Benè” pupillo del mister ungherese Alfréd Schaffer vinse l’ultimo titolo italiano prima della sospensione bellica, lo scudetto 1941-1942. Benedetti tornò in campo a guerra finita, ma ripartì dalla B con la Salernitana che, nel 1947, trascinò alla promozione in Serie A. Prima dei trent’anni chiuse la carriera a Treviso dove era solo Benè, l’artista alla corte del Principe di Monaco e l’amico dei maestri Pietro Annigoni e Giorgio de Chirico, che disse: «Benedetti capisce la pittura, sente la forma e sa rendere il volume». Il terzino giallorosso non stabilì record in campo, ma è ricordato come il “Pittore dei Papi” per averne ritratti quattro: Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI e nel 1979 in Vaticano, Giovanni Paolo II. Artista chiama artista. È il caso di Emilio Tadini che in vita (1927-2002) realizzò anche una Città con campo di calcio e nello spazio milanese che reca il suo nome, di recente sono stati esposti per la prima volta i quadri di Gigi Meroni. La “farfalla granata” infatti era un fantasista anche con il pennello. Nel suo breve passaggio su questa terra (morì nel 1967, a 24 anni, dopo un Torino-Sampdoria) Meroni ha lasciato anche alcune opere in cui oscilla tra lo stile naïf di Antonio Ligabue e l’impressionismo di Vincent van Gogh. Un po’ troppo forse per un calciatore degli anni ’60, un genio compreso dall’accademia di Brera, lo scriba calcistico Gianni, che salutandolo ricordava: «Meroni era un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni». Meroni, per brevità chiamato artista.