Sette , 4 dicembre 2015
Guccini da grande voleva fare lo scrittore
Caro Francesco Guccini, mi permetta il “caro” (intervistarla è come intervistare la colonna sonora della mia generazione, di quando eravamo ragazzi negli anni 70), vorrei cominciare con un quiz. Sa cosa successe il 14 giugno 1940?
«Le truppe tedesche sfilarono per Parigi».
E poi?
«E poi sono nato io».
Successe anche un’altra cosa.
«Non lo so».
Il 14 giugno 1940 è il giorno in cui il campo di concentramento di Auschwitz cominciò a funzionare accogliendo (si fa per dire) più di 700 prigionieri, quasi tutti polacchi, gente della Resistenza, intellettuali.
«Ah, questo non lo ricordavo. Però forse lo sapevo. Me lo avevano detto».
La coincidenza mi fa pensare che era destino che lei scrivesse Auschwitz.
«Forse sì. Auschwitz è stata la canzone della svolta. Prima facevo canzoncine un po’ così. L’idea mi venne da due libri, Il flagello della svastica e Passato per un camino, che era un volume fotografico. Ma la canzone deve molto anche al primo Bob Dylan. La portò al successo l’Equipe 84. Io, allora, non ho potuto nemmeno firmarla perché non ero iscritto alla Siae».
Come mai non era iscritto alla Siae?
«Perché non pensavo di fare il cantante, non pensavo che la musica diventasse la mia professione. L’esame alla Siae lo feci molto dopo. In due tempi. A Roma, feci il primo esame per melodista non trascrittore, nel senso che non sapevo scrivere la musica. Mi chiesero: “Lei ha già fatto delle canzoni? Ce ne faccia sentire una”. Feci sentire Il disgelo, un pezzo che avevano fatto i Nomadi. Poi mi chiesero di scegliere uno stile musicale tra slow, fox-trot, boogie, rock. E, a voce bassa, mi suggerirono: “Scelga lo slow”. Mi fecero sentire alcune battute al pianoforte e io, chitarra e voce, ho provato ad andare avanti con questa melodia. Mi hanno promosso».
E il secondo esame?
«A Milano, l’esame per paroliere. Ti davano una canzone già fatta e tu dovevi cambiare completamente il testo però seguendo quella metrica. Poi ti davano un tema e dovevi svilupparlo. Il mio tema era: “Passa tutti i giorni”. E io lo risolsi così: “Lei che passa tutti i giorni lungo la strada dei pensieri miei”. Promosso anche stavolta».
Torniamo alla colonna sonora della mia generazione. Ora si ritrova tutta intera, comprese canzoni e esecuzioni inedite o disperse, in un cofanetto monstre di 10 cd appena uscito. Ascoltandoli mi hanno colpito molte cose e, soprattutto, la sua grande facilità di versificare, di mettere parole in rima.
«Mi sono allenato facendo le sfide in ottava rima, una mia passione. Uno dei miei avversari più ostici è stato Roberto Benigni, grande specialista del genere. Una volta gli ho lasciato due rime impossibili: mirra e birra. Non puoi continuare, non ci sono altre rime come quelle in italiano. Ero sicuro di aver vinto. Ma lui risolse in maniera brillantissima inventandosi che se Pirro fosse stato una donna si sarebbe chiamato Pirra. È un furbone Benigni».
Sempre a proposito della sua abilità di verseggiatore, Umberto Eco ha detto che lei è capace di far rimare “amare” con “Schopenhauer”.
«Più che una rima è un’assonanza».
E sempre Eco, mi pare, disse che lei è il cantante più colto che c’è stato in Italia.
«No, assolutamente no. È Roberto Vecchioni. Lui ha fatto il Classico, io le Magistrali. Me lo rinfaccia sempre. Lui ha fatto il professore, è più preparato».
Nel suo monumentale cofanetto oltre ai cd c’è anche un libro dove lei racconta l’occasione e la storia delle sue canzoni una per una. Di solito un autore, soprattutto di canzoni, sente imbarazzo a parlarne, a riascoltarle. Lei che sentimenti prova?
«Se, per esempio, me le mettono su in un ristorante per farmi un omaggio, io dico tiratele via, per favore, mi infastidisce. Però, risentendole per il cd, a volte mi sono detto: “Non è venuta male, non è una brutta canzone, è buona. Mi riscopro, insomma”. E glielo dice uno che una gran fiducia in sé stesso non l’ha mai avuta. Autostima io? Poca o niente. Forse a causa della mia famiglia».
Intende per l’educazione ricevuta?
«Sì. Sa come succede: “Che mestiere fai?”. “Il cantante”. “Sì, lo so, ma di lavoro cosa fai?”. I miei non mi hanno mai sostenuto nelle cose della musica. Adesso vedo che i genitori seguono i figli, li spronano. Mia madre è venuta in tutta la sua vita a un solo mio concerto. Mio padre a nessuno. Penso che fossero anche fieri di me, anche se non lo so con certezza. Mia madre giocava molto a dire: “Sì, fa il cantante, ma noi avremmo preferito che avesse fatto il professore di storia”. Ma quando mai il professore di storia? Da dove salta fuori questa idea di mia madre? Mio padre, però, mi ha sempre lasciato fare quello che volevo, forse perché lui avrebbe voluto seguire studi umanistici e lo costrinsero a prendere il diploma di perito elettromeccanico. Il suo primo lavoro fu a Rovereto a impiantare linee telefoniche. Gli piaceva la storia, aveva comprato a rate tutti i volumi di Barbagallo e li aveva letti».
Ascolti: “Ho visto le migliori menti della mia generazione / distrutte dalla pazzia, affamate, nude, isteriche / trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa”. Questo è l’incipit di Urlo, la celebre poesia di Allen Ginsberg, il guru della beat generation. E ora ascolti: “Ho visto / la gente della mia età andare via / lungo le strade che non portano mai a niente / cercare il sogno che conduce alla pazzia». Questo è l’attacco della sua Dio è morto.
«Qualcosa in comune c’era. Ma me ne sono accorto dopo. All’epoca in cui la scrissi, quando me lo facevano notare, pensavo che i due testi non avessero niente in comune. Dio è morto non è una delle mie canzoni migliori. Anzi mi meraviglio che tanti altri l’abbiano cantata: la Vanoni, la Mannoia, la Giannini. Dicono che è attualissima, per me è rimasta alla sua epoca».
Mi vuol dire che oggi non la riscriverebbe Dio è morto?
«Nooo, perché è cambiato tutto. Parla di un mondo che non c’è più. Ricordo che i primi a cui la feci sentire furono quelli dell’Equipe 84 ma a loro non piacque. Gli avevo fatto sentire pure Un altro giorno è andato, una delle mie canzoni più fortunate. Anche quella non l’apprezzarono. Maurizio Vandelli mi disse no. E poi in giro disse: “Si sente che Guccini è già finito e non ha più niente da dire”. Ne ho detto tante altre di cose, invece. Furono i Nomadi a portare al successo Dio è morto. C’è un’altra canzone che, misteriosamente per me, moltissimi ricordano: L’avvelenata. Anche qui ne ho scritte di migliori. Pensi che una volta Vasco Rossi passò una sera apposta da Vito, la trattoria dove ero di casa a Bologna, per dirmi che gli piaceva moltissimo».
Per lei ha contato più Dylan o la beat generation?
«Dylan. Ho preso dalla musica più che dalla letteratura. E poi quelli della beat generation non hanno dato grandi prove letterarie alla fine. Se penso a quanto mi entusiasmò Kerouac la prima volta che lessi i suoi romanzi e ora non si possono più rileggere».
Aveva ragione Truman Capote quando, parlando della prosa di Kerouac, diceva: “Quello non è scrivere, è battere a macchina”. Senta, secondo me, uno dei segreti del suo successo è stata la sua voce, una voce narrativa se così si può dire, fatta per raccontare. Tecnicamente che tipo di voce è la sua?
«Sono tra baritonetto e tenorino. Certo non sono un tenore completo alla Luciano Pavarotti. Vicino a casa dei miei, a Modena, c’era il forno del padre di Pavarotti. Ci compravamo le lasagne, il lievito di birra. Pavarotti era alle Magistrali con me, io in prima e lui in quarta, ripetente. Un ragazzone, ma allora lo conoscevo poco. Ci siamo conosciuti in seguito. Parlavamo in dialetto. Una volta andai a un suo recital e, alla fine, lui mi vide e disse: “Hai sentito come si canta?”. E io gli risposi: “Canta tu La locomotiva che voglio vedere cosa ne viene fuori”. A ciascuno la sua musica».
Lei all’inizio non pensava di fare il cantante, cosa voleva fare da grande?
«Scrivere. Fare il giornalista e scrivere anche un romanzo».
Sognava di diventare come Hemingway?
«Come fa a saperlo?».
Era il sogno di tutti in quegli anni.
«Più o meno, l’intenzione era quella lì. Però il mio primo lavoro fu in un’agenzia di pubblicità. Si facevano i caroselli e gli slogan per l’Amarena Fabbri, la cera Grey, la grappa Landy Freres. Per la cera Grey i testimonial all’inizio erano i Brutos. Se li ricorda?».
E chi può dimenticarli?
«Poi il posto dei Brutos lo presero Franchi e Ingrassia, con i quali diventai amico».
Lei faceva le musiche, i jingle?
«No. All’epoca tutte le musiche delle pubblicità le scriveva Franco Godi, un compositore di Firenze. E, comunque, io non pensavo alla musica, come le ho detto, volevo scrivere e quindi scrivevo le sceneggiature e le parole per le canzoncine. Per l’Amarena Fabbri scrivevo le storie del cartone animato con protagonista Salomone, il pirata pacioccone. Il mio personaggio di maggior successo. La pubblicità mi piaceva, ma non pensavo che sarebbe stato il mio lavoro in futuro. Ero studente, avevo bisogno di soldi e la pubblicità pagava bene. Il giornalista, invece, l’ho fatto seriamente e lo volevo fare. Lavoravo alla Gazzetta di Modena».
Che tipo di giornalista era?
«Scrivevo anche sulla terza pagina. E poi avevo una rubrica che si intitolava “Un giorno in pretura”, dove raccontavo i processi. Ma questo era il contorno. Il grosso del lavoro era la cronaca. Facevo il giro, come si diceva in gergo. Ogni giorno passavo dalla questura, dagli ospedali a caccia di notizie. La nera mi piaceva molto però i bei delitti non me li davano mai, quelli se li beccava il capocronista. A me restavano le briciole. Non c’era solo la nera, c’era anche la cronaca bianca. Mi ricordo che mi assegnarono un pezzo su una monaca, Suor Eustachio Maria Peloso, mi ricordo ancora il nome».
Sarà stato Eustachia.
«No, era proprio Eustachio. La suora compiva i cinquant’anni da quando aveva preso i voti. Quel pezzo me lo fecero rifare tre volte. Un incubo. E io che mi ero immaginato di scrivere storie alla Hemingway!».
Be’, sarei curioso di vedere che cosa avrebbe combinato Hemingway con la storia di Suor Eustachio. Guadagnava molto alla Gazzetta?».
«Poco. Mi davano 20 mila lire, dieci li davo in casa. Era proprio poco. Ma il lavoro mi piaceva».
Perché ha smesso?
«Ero andato in ferie una settimana. Allora si lavorava tutti i giorni, senza giorno libero, si faceva festa solo il primo dell’anno, il primo maggio, Natale. L’orario, sette giorni su sette, era dalle tre del pomeriggio fino alle otto e poi dalle nove e mezza fino alle tre del mattino. Tornato dalle ferie, prendo lo stipendio e vedo che mancano dei soldi. “Vi siete sbagliati” dico all’amministratore. E lui: “Nessun errore, sei tu che hai preso una settimana di ferie”».
Roba da Jobs Act.
«Mi arrabbiai e andai da Alfio, il mio amico musicista che aveva formato un gruppo da ballo e cercava un cantante chitarrista».
Era Alfio Alfio?
«Sì, Alfio Cantarella, quello che sarebbe diventato il batterista dell’Equipe 84. Gli chiesi quanto mi avrebbe pagato. Era molto di più di quanto prendevo al giornale e così cominciò la mia carriera musicale. C’era anche Victor Sogliani, il futuro bassista dell’Equipe. Ci chiamavamo i Marino’s (Marino Salardini era il pianista, veniva dalla fisarmonica). La “esse” stava per il genitivo sassone che allora era seminato a piene mani ovunque. Il rock è stata una botta per la nostra generazione. Eravamo stati appassionati di jazz freddo, di blues, suonavamo Gerry Mulligan, ma il rock vinse su tutto perché sono tre accordi, è una musica democratica. Con I Gatti, a un certo punto cominciammo a chiamarci così, senza più genitivo sassone, facevamo le feste parrocchiali e quelle studentesche, suonando il rock and roll senza sapere le parole naturalmente. Ed era meglio non conoscerle quelle parole, perché tante volte erano di una banalità sconcertante».
Lei non ha né la patente né il cellulare come molte rockstar.
«Ma io non sono una rockstar».
Però racconta spesso un remake della favola La cicala e la formica di La Fontaine con una rockstar protagonista.
«Ma no, è una semplice barzelletta. La prima volta la sentii dai Giancattivi, il gruppo comico toscano. Nella storia la cicala è diventata una cantante rock e suona la sua chitarra tutto il tempo. La formichina sgobba come una dannata e la guarda. Un giorno la formichina non si tiene più e domanda al suo babbo: “Ma com’è che noi lavoriamo e lei canta?”. E il babbo: “Lascia che canti, vedrai che poi quando verrà l’inverno...”. Arriva l’inverno e la cicala appare avvolta in una pelliccia di visone, abbronzatissima, e dice alla formichina: “Il nostro disco è primo in hit parade, abbiamo fatto un sacco di quattrini e adesso andiamo in vacanza alle Hawaii a stare un po’ al caldo. A proposito, per strada ci fermiamo a Parigi che ci sono le sfilate di moda, vuoi che ti porti qualcosa, un souvenir?”. E la formica: “Hai detto Parigi? Parigi, Francia?”. La cicala: “Sì, proprio Parigi”. La formica: “Allora un favore me lo puoi fare. Se incontri un certo signor La Fontaine, lo mandi affanculo a nome mio?”».
Il suo racconto, La cena, entrò nel Meridiano dei Racconti italiani del Novecento, e Enzo Siciliano elogiò il suo «estro terragno, legato a quello, ricco di umani sapori, dei novellatori appenninici». Parole perfette anche per i suoi racconti di Un matrimonio, un funerale, per non parlar del gatto, appena usciti e già best seller. Sono sempre racconti appenninici (e anche un po’ hemingwayani) ambientati a Pavana, il paese dove lei vive, dove sono le sue radici e dove si sta svolgendo questa intervista. Ma il romanzo alla Hemingway, quello che voleva scrivere da ragazzo sulla macchina per scrivere della Gazzetta, quando lo scrive?
«Ho provato a scrivere in quello stile asciutto che mi piace moltissimo (e che è anche di Cormac McCarthy, autore che amo tanto). Ho scritto due capitoli. Sono venuti molto bene. Però è una storia che parla di muli, di gente che lavorava con i muli e io di muli non so quasi niente e allora mi sono bloccato».
Tra dischi e libri, lei viene da un periodo di super lavoro, ora si riposerà un po’?
«Veramente sto scrivendo un nuovo giallo con Loriano Macchiavelli. Abbiamo trovato un personaggio con un nome bellissimo, Adumas, perché suo padre ha letto I Tre Moschettieri e ha chiamato così il figlio in onore dell’autore (A. Dumas). Lo sa che nel cimitero di uno dei paesini attorno a Pavana esiste veramente la tomba di uno che si chiamava Adumas?».