Sette, 4 dicembre 2015
Marco Mengoni, il cantante che sfida se stesso
«Nei momenti in cui sono più nervoso, come quando scrivo canzoni – ti muovono sempre qualcosa dentro – mi ritrovo a cucinare. A mezzanotte e mezzo, ovviamente, non posso disturbare i vicini facendo musica». Così, a notte alta, nella cucina tutta bianca della sua casa nuova nel cuore della vecchia Milano («Comprata con un mutuo trentennale…»), Marco Mengoni impasta la frolla e fa crostate. «Oppure apro il frigo e metto insieme, a occhio, gli ingredienti che trovo: cibo fusion, un po’ come la musica del mio nuovo album. Intanto seguo i tg 24 ore. Notizie in continuo aggiornamento. I raid in Siria e in Iraq, i blitz della polizia in Belgio…». No, non stava cucinando venerdì 13 novembre. «Ero fuori, e il telefonino non prendeva, non si riusciva a verificare la gravità dei fatti. Tornato a casa, volevo sapere, capire. In un teatro come il Bataclan, avrei potuto essere sul palco o accanto agli altri giovani del pubblico. Mi sono messo davanti alle news fino alle tre, quando sono crollato».
Marco Mengoni ha un involucro mite su un uomo che incide canzoni come “Guerriero”. Titolo tutt’altro che casuale, per il suo spirito. Ora, negli stadi di tutta Europa, s’intona la Marsigliese; per le strade di Parigi i ragazzi d’ogni etnia marciano sfidando la paura e quel terrorismo che punta a mettere gli uni contro gli altri. “Esseri umani che hanno il coraggio di essere umani”: come in una delle sue canzoni più recenti. E “Libero, libero, libero, mi sento libero / canto di tutto quello che mi ha dato un brivido”, è un verso del nuovo album: «Di sicuro mi dà i brividi vedere persone che aiutano altre persone a combattere per la libertà. A riscattare insieme i diritti, tanti tipi di diritti. O semplicemente quello alla propria vita. Nei film, nei libri e nella musica che mi porto dietro da quando sono cresciuto, ci sono uomini come Martin Luther King, con le loro lotte. Sì, esseri umani che hanno il coraggio di esseri umani. Piedi bianchi e piedi neri che procedono uniti. Mi ha colpito molto vedere tante persone, che avevano il dito puntato contro solo per il colore nero della loro pelle, essere affiancate da altrettanti piedi bianchi che non lottavano per i proprio diritti ma per quelli degli altri. Di tutti. L’ho messo nella mia canzone. Io ricerco la libertà nelle piccole cose quotidiane. E voglio essere al fianco di persone che ricercano questo».
Quando parli con Marco Mengoni, la star che ha conquistato un posto nell’olimpo della canzone italiana passando dalla vittoria della terza edizione del talent show XFactor alla conquista di Sanremo 2013 (con L’essenziale) e alla sfilza di dischi d’oro e di platino che sono seguiti, hai – ogni tanto – la sensazione che ritroverai qualcuna delle parole pronunciate in una delle sue canzoni future. «Abbiamo l’opportunità di usare questa nostra società per costruire una società equilibrata. Non voglio dire perfetta, perché non l’avremo mai finché terra non ci separi dalla vita stessa», ti dice. «Si vive talmente tanto di fretta che non hai tempo di fermarti a ragionare, a scavare nel fondo di un’istante», riflette.
L’asticella sempre più in alto. Oggi, dell’artista di Ronciglione, nel viterbese, esce il nuovo album. Il compimento di un progetto nato con il precedente cd. «Desideravo fare qualcosa di diverso dai miei altri dischi concept, con un unico filone melodico-armonico. Sono un “ottantottino”, e come i miei coetanei, amo comporre, nella playlist del mio smartphone, sensazioni personali e brani con stili musicali diversi. Così ho cercato di formare la “mia” playlist, scrivendo canzoni che contenessero tutti gli input che ho assorbito in questi ultimi anni». E siccome un disco «non bastava», ecco che è nato un dittico: Parole in circolo, il primo, l’anno scorso; e ora il nuovo, Le cose che non ho, che – quasi a tenere tutto insieme – contiene anche un singolo che s’intitola, appunto, Parole in circolo.
Tanta roba. Che vedremo presto rimbalzare, come palline da flipper, anche sui social, dentro cui Marco Mengoni conta su «un esercito di fan» (per dirla con lui): la sua app, un caso più unico che raro nel mondo della musica, è stata scaricata da più di 80 mila persone in un attimo. Su Instagram sono 340 mila, su Twitter 1.100.000. Il video del primo singolo del nuovo album, Ti ho voluto bene veramente, è stato visualizzato online 13 milioni di volte ed è già disco di platino. E se un dato statistico personale ha un valore, è uno degli artisti che ho intervistato per il quale ho ricevuto più richieste per avere un autografo.
«È grazie ai miei sostenitori social che riusciamo ad “annientare” tutti i nostri avversari», aggiunge l’artista. (Sì, con il verbo al plurale, perché ogni tanto passa al noi. E ci ironizza pure su: «Zitto tu», finge di dire a un amico immaginario appollaiato sulla sua spalla. «Mi prendono in giro, i miei collaboratori. Ma fin da piccolo, ho vissuto sempre con la mia famiglia, tutti insieme. E poi, per me, questo nostro è un lavoro collettivo, anche se poi sono io a salire sul palco a esibirmi»). Ma non è solo nella vita digitale che Mengoni sbaraglia tutti: il nuovo tour, in partenza da Torino il 28 aprile, era stato appena annunciato che le richieste hanno portato subito il raddoppio delle date clou, a Milano, a Roma e a Verona. I video, poi, tratti dai singoli, sono tanti “corti” che, alla fine, andranno a ricomporre un’unica storia. E poi ci sono le grandi collaborazioni con star italiane, come Giuliano Sangiorgi, e internazionali contenute nel nuovo album…
È come se Mengoni alzasse continuamente l’asticella. Come se, in ogni cosa che fa, si sfidasse per vedere fin dove può arrivare. «Il fatto è che io non so se ci sia una vita dopo questa», spiega. «Quindi, nel dubbio, devo comunque fare esperienze che mi portino a essere in competizione con me stesso. E con quello che io credo di essere: perché, in fondo, io non so ancora chi sono. E quindi devo scoprirlo: mettendomi alla prova. Sennò, che viviamo a fare?».
Una sfida iniziata prestissimo. «La prima volta che sono andato a lavorare avevo 14 anni. In un bar. I miei genitori – soprattutto mia madre, che non voleva che uscissi di casa – mi dicevano: “Ma perché vai a lavorare così presto, a che cosa ti serve? Stiamo bene, sei pure figlio unico…!”. Io, invece, volevo trovare la mia strada e la mia indipendenza. Con i primi stipendi, mi sono pagato uno stage a “Tuscia in Jazz”». Vicino la sua Ronciglione. Era solo un ragazzino… «Già, arrivando da un “talent”, è come se tu non avessi fatto ancora niente fino a lì. Tutti pensano che ti sia trovato per caso, a fare quel provino, che prima non sapevi neanche cosa fosse la musica». Invece… «Le estati lavoravo per acquistare le mie prime casse Yamaha, il primo computer, il mio primo “pro tools” (un sistema di registrazione Hd, ndr)… Poi ho continuato ad avere gruppi rock, ma anche dance Anni 70 e 80». Ride. «Una cosa atroce, in effetti... Avrò avuto 17 anni, cantavo in luoghi assurdi. Tutti dicono: “Ah, che bello, hai fatto i pub”… Da noi, in verità, di pub non ce n’è neanche uno. E io, infatti, cantavo sui prati, nelle sagre». Pro loco e santi patroni. «Ho iniziato a lavorare su piccoli progetti, a scrivere canzoni: come la sigla per un’organizzazione giovanile, al campo sportivo del mio paese. E iniziavo a registrare a casa mia. Volevo capirne di più. E continuavo a lavorare al bar».
Anche perché era il modo di Marco Mengoni di spostare più in alto un’altra asticella: sfidando – sconfiggendo – la sua grande timidezza. «Oggi adoro la professione di barman, ma l’odiavo. Avendo io vissuto un’infanzia molto solitaria, per me trovarmi di fronte a persone che ti chiedevano 50mila tipi diversi di caffè, cornetti e succhi di frutta, interfacciarmi con loro – io che ero uno che se ne stava in camera sua con la sua scrivania, le sue casse e le sue cuffie – era molto difficile». Com’è andata? «Il primo mese è stato disastroso. Anche lì, ovviamente, cominci dal basso: non mi vergogno di dire che ho pulito, per tanti mesi, dei gran gabinetti… Poi sono andato più avanti, e mi sono ritrovato dietro il bancone. Dove il vero lavoro è stato parlare con tutto il mondo. Uscire allo scoperto. Beh, ce l’ho fatta». In alcuni periodi, spiega, oltre che al bar, lavorava come cameriere in un ristorante: «Staccavo la notte, magari facevo anche serata con gli amici, poi alle 5 e mezza aprivo il bar, perché dalle nostre parti si esce presto per andare a caccia. Ho continuato a farlo per sette anni, quando non studiavo. Ora quando entro a prendere un caffè, se tutto non è perfetto, mi arrabbio». E della timidezza, quanto ne è rimasta? «Un 40 per cento. Per un ragazzo che non sapeva come misurarsi con le persone, salire su un palco, davanti a un bel po’ di gente che viene a sentirti, che siano venti o 20 mila, è stato un bel passo avanti».
Avrei voluto essere a Woodstock. Intanto si era trasferito a Roma, continuando a fare il barman e il cameriere in un pub. Diciotto anni, il test andato male ad architettura, l’iscrizione a Lingue e Letterature straniere. «A tempo perso, andavo a registrare pubblicità». Tipo? «Quella dei Rotoloni Regina. Facevo il fonico: di fatto, usavo il mezzo tecnologico che a casa mi permetteva di continuare a fare le mie cose. Lì ho conosciuto il mio primo chitarrista. Abbiamo così iniziato a registrare delle canzoni nostre, degli inediti, che abbiamo portato a quasi tutte le case discografiche – tranne questa (la sua attuale, la Sony, ndr) —. Ho ricevuto dei bei calci sul didietro…». Finché è arrivata la partecipazione a XFactor edizione 2009. «I ragazzi con cui lavoravo mi hanno detto: se passi almeno il primo provino, ti paghiamo una cena». Più che una sfida, una ghiotta provocazione per un ragazzo come Mengoni. «Andai. Ne feci uno in più, sei invece di cinque, perché non erano sicuri di prendermi». Tre mesi dopo era il suo trionfo finale.
“Non arrenderti mai, perché quando pensi che sia tutto finito è il momento in cui tutto ha inizio”, diceva Jim Morrison, il leader dei Doors. Una citazione che non può non piacere a Mengoni. Se non altro perché, se potesse vivere un esperienza del passato, vorrebbe tornare ai tre giorni di Ferragosto del 1969: «Woodstock, un punto di rottura rispetto alla musica e alla società del tempo». D’accordo, i Doors, sul prato di Bethel, non c’erano… «Ma sì, sono legato a tutto quel mondo. Jimi Hendrix, Janis Joplin, Joe Cocker, gli Who… Tutti i pilastri della musica. Da ragazzo, però, in camera non avevo poster. Ci sono momenti in cui ascolto un disco fino a distruggerlo. Poi passo ad altro, e non so cosa mi porto dietro fino a che me ne accorgo, tempo dopo. Come un disco del 1965 di Ann Peebles che aveva un suono vecchissimo. Lo sentivo 4 anni fa, mi ha ispirato registrando questo album. Come diceva Steve Jobs: è impossibile inventare cose nuove, bisogna avere la capacità di mescolare tutto ciò che è stato già creato, di filtrarlo attraverso di noi, e farlo passare su un disco, su un quadro, in un film…».
Il trio dell’anello con l’onice. Naturalmente, il risultato deve essere ideale. Jobs non lo diceva, ma questa è l’altra faccia della medaglia della sfida continua dell’artista italiano: il perfezionismo. «E, ovviamente, alla perfezione non arrivi mai», ammette. «Così divento ipercritico verso me stesso. Sto sempre a cambiare, a cancellare... Prima che esca un nuovo album, magari passo una giornata a pensare “Che figata!”; dopo due giorni, voglio rifare le cose da capo». E i collaboratori, che fanno? Con Marta Donà («Le ho chiesto io di diventare manager, per me») e sua cugina Claudia («Per me ha imparato un mestiere nuovo») sono così legati da indossare tutti e tre lo stesso anello con un’onice nera… «Talvolta mi vengono dietro; altre mi fanno aspettare: così magari ci ripenso».
Il perfezionismo, in effetti, è una brutta bestia. «L’avevo anche alle superiori, all’istituto d’arte», ricorda l’artista di Ronciglione. «Cinque anni meravigliosi, indirizzo “industrial design”, in classe fino alle 4 del pomeriggio. Noi maschi eravamo in 9: ma gli altri avevano scelto quella scuola con leggerezza, senza rendersi conto che era più dura di come s’aspettavano. Quindi, in un pot-pourri di fiori secchi, l’unico che si impegnava – io – era il più bravo (può un perfezionista mai riconoscersi un merito fino in fondo?, ndr). E siccome ero sempre alla ricerca di qualcosa di speciale, proponevo progetti creativi. Il prof era felicissimo. Ma al terzo lavoro, aveva capito come ragionavo. Iniziavo un lavoro, “sbozzettavo” tutto, me lo riguardavo per un po’. Poi stavo due lezioni fermo. Alla fine dicevo: vabbè basta, è pessimo, è diverso da come l’avevo pensato». E l’insegnante? «Mi guardava e chiedeva: “Che fai Marco?”. “No, guardi, ne comincio un altro... Sa, è una cosa stupenda, mi è venuta un’idea pazzesca...”. Ovviamente iniziavo un’altra cosa che non portavo del tutto a termine perché, anche questa volta, non ero soddisfatto».
Ora i progetti li porta a termine. Sempre con una particolare sensibilità verso le fragilità dei giovani, che a Mengoni è appena valsa il premio del Garante per l’Infanzia, che gli è stato consegnato al Senato: su 75 personaggi seguiti dagli adolescenti è risultato quello con più “sentiment positivo” per dignità, rispetto, coraggio e ascolto. Un simbolo, insomma, per moltissimi ragazzi. «Nella vita devi arrivare al “rock bottom”, il punto più basso della tua esistenza, per poi capire che c’è tanto altro. Nell’adolescenza ho vissuto tantissimi di questi momenti. La non accettazione del tuo fisico o di quello che sei. C’è un disequilibrio ormonale, diventiamo delle fisarmoniche: per tre anni sei così». Anche lui è arrivato a pesare 95 chili. «Non vuoi mai uscire, metterti a confronto con il mondo. Tanti motivi, che vedendoli oggi, mi metto a ridere. Ma se sei una persona sensibile vivi questa cosa con molta più pesantezza».
Un’altra sfida da affrontare. Come resistere? «Forse è un riscatto: in alcuni momenti di fragilità della vita, che possono essere stati anche stupidi e banali, era fondamentale avere un punto d’appoggio. Io non l’ho avuto. Attraverso canzoni e video come Guerriero a Esseri umani, non faccio altro che parlare di cose che ha vissuto chiunque abbia subito discriminazioni nella propria vita». Si capisce bene allora, perché fra i film preferiti, prima ancora de La teoria del tutto e del filone di X-Men, ci sia The help – l’etteralmente, l’aiuto... – che racconta il tema della segregazione razziale in America.Anche Marco Mengoni ha subito? «No, a me fisicamente non è mai successo. Ero 95 chili per un metro e 84: e chi si provava ad avvicinarmi?! Se “me girava e pijava er matto”, lo facevo “a doghe”. Però ho assistito a persone che subivano… E mi sono sempre messo in mezzo. Non ho mai fatto a botte, in vita mia, e credo che mai lo farò, però sento l’esigenza di unirmi a lotte giuste che si fanno per la libertà degli esseri umani».
Anche la voglia di mettersi in mezzo non gli è passata. Come una notte in corso Buenos Aires, a Milano («Quando la gente va a ballare, io vado al cinema, alla proiezione notturna», confessa). Era in giro in moto, con la sua Triumph. «Stavo fermo al semaforo: davanti a me, un’auto grossa è andata addosso a una di quelle piccole con le portiere che si aprono verso l’alto. Poi è corsa via. Ma quella colpita, tutta sgangherate, ha continuato a correrle dietro. La donna alla guida urlava come una matta. Le sono andato dietro con la moto: temevo che se lui si fosse fermato, l’avrebbe anche potuta picchiare. Almeno, mi sono detto, ci sto io con lei!». L’ha raggiunta? «Sì, ha desistito. Comunque le ho lasciato tutti i miei contatti: in qualsiasi modo avessi potuto ancora aiutarla… E non mi ha nemmeno riconosciuto!».