l’Espresso, 4 dicembre 2015
Stefano Boeri racconta come il suo Bosco Verticale è diventato un modello globale
Golia era favorito, ma ha vinto Davide. Il One World Trade Center, il grattacielo costruito a Ground Zero, New York, da Skidmore Owings Merrill, la più potente società di progettazione del pianeta Terra, battuto dal Bosco Verticale di Milano: premiato come miglior edificio alto del mondo nel 2015 dal Council on Tall Buildings and Urban Habitat promosso dall’Illinois Institute of Technology, aristocrazia pura. Un modello che non resterà isolato, come ci spiega lo stesso Stefano Boeri, ideatore del BV (con Boeri Studio e gli ex soci Barreca e La Varra, Hines Italia Sgr e Coima di Manfredi Catella), che ha incontrato “l’Espresso” a Milano.
Battuto il nuovo simbolo di New York. Lo credevate possibile?
«Nessuno se l’aspettava. Tra l’altro, la sera prima avevo tenuto una lezione sull’importanza dei fallimenti in architettura: su come, anziché nasconderli, si debba cercare di usarli. Mi pare che la giuria, nel finale, sia stata colpita anche dal nostro documentario “The Flying Gardeners”, già presentato alle Biennali di Chicago e di Shanghai, sui “giardinieri volanti” che, appesi nel vuoto come alpinisti, curano gli alberi delle due torri».
Il caso Bosco Verticale viene illustrato il giorno 7 alla Conferenza sul clima di Parigi. E sembra che una prossima Vertical Forest potrebbe nascere in Svizzera.
«A Losanna. Abbiamo vinto un concorso a inviti per un’area privata a Chavannes, vicino al Rolex Learning Center realizzato dallo studio giapponese Sanaa. È la Tour des Cedres, la Torre dei Cedri, 117 metri, residenziale con una quota di uffici e un ristorante in cima, per i developer Nicod e Orllati, un progetto che è stato sottoposto a referendum. Rispetto al BV varia un po’ nei principi costruttivi; oltre ai cedri, avrà aceri, lecci e piante arbustive; la parte botanica è curata dall’agronoma Laura Gatti».
E c’è la Cina che chiama. Dove, come e perché?
«In Cina il progetto milanese ha suscitato interesse da subito, mi hanno invitato a illustrare i temi del green building in varie occasioni. Abbiamo aperto uno studio a Shanghai. Dove è a buon punto la ristrutturazione della sede storica della Borsa, un edificio del 1935, in Nanjing Road, che avrà una parete di verde verticale. Un’altra sfida è nel Guizhou, provincia sud-occidentale, dove stiamo lavorando per una imprenditrice su un parco nella regione del Wangfeng, detta Forest of Ten Thousand Peaks, per le migliaia di piccole colline ravvicinate. Il primo progetto, un hotel, riprende appunto la morfologia della collina verde, ma il lavoro complessivo si chiama Peak +, è un nuovo quartiere green dal carattere sperimentale. Nel 2016, come docente (Boeri è professore al Politecnico di Milano, ndr), dovrei iniziare dei corsi al College of Architecture and Urban Planning della Tongji University».
È vero che state studiando come applicare temi del green building in Egitto?
«Al Cairo siamo arrivati nel terzetto di testa di un concorso per riqualificare il quartiere Maspero. È un’area a triangolo, con un pezzo di lungofiume sul Nilo ma anche una parte interna povera, dove studiamo come riqualificare quegli insediamenti informali con orti urbani e alberi da frutta sui tetti, a favore di un’economia di sussistenza. Il che segnala come le idee che ispirano il BV non sono applicabili soltanto alle aree ricche del mondo avanzato».
È la critica che qualcuno le fa: il BV è affascinante, ma è un’architettura solo per ricchi.
«Il BV di Milano è nato in un certo contesto, per la fascia alta del mercato. Ma non è così costoso come si crede. La struttura è semplice, e così il disegno architettonico e i materiali usati. Certo, si è speso molto in ricerca: l’ingegneria della Ove Arup, la scelta e gestione delle specie arboree, le prove in galleria del vento, il risparmio energetico. Ma la manutenzione del verde comune non è troppo onerosa».
Dopo due anni qual è il bilancio?
«Sorprendente. Mortalità quasi a zero, non un albero ripiantato. Hanno nidificato alcune specie di uccelli, la lotta biologica ai parassiti la fanno le coccinelle».
E il bilancio culturale rispetto all’evoluzione della città?
«In questa storia la forza sta nelle idee, che abbiamo ampiamente condiviso con la comunità architettonica. Il Council di Chicago e Ove Arup hanno pubblicato il volume “Vertical Greenery”, a cui abbiamo fornito i risultati dei nostri studi. La Bbc da due anni sta filmando l’evolvere delle specie arboree e animali del BV. Un ecosistema che è l’equivalente di una foresta orizzontale di 2 ettari. L’idea maturò intorno al 2007-2008, ai tempi del manifesto della Terza rivoluzione industriale di Jeremy Rifkin, della Biennale Architettura, e analizzando il caso Dubai, “città minerale” di sole torri vetrate che, riflettendo la luce solare, generano calore ulteriore nell’aria e a terra. Un articolo di Alejandro Zaera-Polo per “Harvard Design Magazine”, nel 2007, mi diede altri spunti. Notava, tra l’altro, che il 94 per cento dei nuovi grattacieli costruiti nel mondo dal 2000 erano rivestiti in vetro».
E il green building è un’alternativa credibile?
«È all’opposto delle torri vetrate. I punti chiave sono tre: edifici che producono energia pulita, consumando meno; che danno un contributo di sostenibilità, con il fogliame che pulisce l’aria dalle polveri e abbatte il calore esterno; che favoriscono la biodiversità di specie vegetali e faunistiche poco presenti nelle città. Il nostro è un contributo alla densificazione urbana: le città devono smettere di espandersi in orizzontale. È urgente contrastare il cosiddetto sprawl».
Perché il grattacielo in vetro “all’americana” ha dominato così a lungo l’immaginario?
«Perché una pelle vetrata costa meno di una superficie complessa. Dura di più del cemento a vista o di un mix di materiali. L’estetica americana ha avuto la forza d’imporsi un po’ ovunque, ma il costo energetico rimane alto, la torre in vetro è il contrario di un edificio osmotico».
In Italia si sono registrati anche silenzi e gelosie, intorno al successo mondiale del BV. Come mai?
«Non posso rispondere io. Per stare sui grandi nomi, ho avuto commenti cordiali da Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Renzo Piano. Ma in Italia, zero premi. Il BV non è stato pubblicato neanche su “Domus” e “Casabella”...».
In futuro teme di rimanere prigioniero di un’idea di successo?
«Il rischio c’è: che ci chiedano di replicare troppe volte uno stesso modello. Ma il Bosco Verticale non è un esercizio linguistico, replicabile com’è replicabile uno stile. È nato come prototipo, ha un alto contenuto di ricerca. E riflette una visione: un modo nuovo di intendere il rapporto tra abitante, architettura e città».