l’Espresso, 4 dicembre 2015
Libia, l’altro fronte del Califfo
Una lunga coda di uomini in fila per uno, a testa bassa, lambisce il muro del cimitero di Misurata e si ferma a stringere le mani dei parenti del morto. La madre è velata, piange, tiene in un braccio un bambino e nell’altra mano un cestino per le offerte. A pochi metri di distanza uno zio incide sul cemento il nome di Ahmed.Ahmed aveva vent’anni, è stato giustiziato dai miliziani dello Stato islamico a Sirte, 150 miglia a est di Misurata, l’autoproclamata capitale dello Stato islamico in Libia. «Sono cinque mesi che è morto e quegli assassini ci hanno restituito il corpo solo domenica scorsa», dice Ibrahim, il padre, appoggiandosi al muro del cimitero. «Hanno ucciso lui e due suoi compagni. Li hanno lasciati per mesi nel fango».Mentre si celebravano i funerali di tre giovani, da Sirte i miliziani dell’Is mettevano in rete le ennesime immagini di propaganda: festeggiavano per i morti di Parigi distribuendo caramelle ai bambini. Insieme ai cadaveri dei tre giovani, sono tornati a Misurata cinque autisti rimasti nelle prigioni di Sirte per mesi. In cambio l’Is ha voluto undici uomini detenuti tra Misurata e Tripoli.
Da due anni la Libia è sprofondata nel caos della guerra civile: due governi contrapposti, uno riconosciuto dalla comunità internazionale – di base a Tobruk – e uno, autonominato e filoislamico di base a Tripoli, due parlamenti, centinaia di milizie che si combattono in alleanze variabili, trattative di pace estenuanti che non giungono a una conclusione e in mezzo l’espansione dello Stato islamico. Secondo Patrick Prior, capo analista della Defence Intelligence Agency statunitense, intervistato dal “New York Times”, «le cellule dell’Is in Libia sono le più preoccupanti perché sono il loro più solido hub nel nord Africa». L’Is in Libia sarebbe diventata talmente importante che i leader del gruppo starebbero pensando di trasformarla nella loro nuova capitale, trasferendola da Raqqa, in Siria.
L’ESPANSIONE
Il caos libico è stato il terreno ideale per l’espansione del fondamentalismo che ha consentito ai miliziani dell’Is di esportare il modello di stato sognato da al Baghdadi, in poco meno di un anno. Sirte si trova in una zona strategica di campi petroliferi e raffinerie. Città natale di Gheddafi, roccaforte del suo consenso e scenario della sua morte, è diventata, dopo la rivoluzione, il bacino del consenso di Ansar al Sharia, gruppo terroristico salafita ritenuto responsabile dell’attentato all’ambasciata americana del 2012. Ed è la città simbolo del malcontento post rivoluzionario: qui si sono riunite intorno allo Stato islamico alcune tribù locali, gli ex gheddafiani in cerca di riscatto (esattamente come gli ex baathisti in Iraq) e parte, appunto, di Ansar al Sharia. «Dopo la rivoluzione noi di Sirte ci sentivamo abbandonati e gli uomini di Ansar al Sharia all’inizio ci hanno aiutato», racconta Maklouf, che a Sirte faceva l’avvocato, era membro del consiglio municipale della città, ed è scappato via. «Si occupavano di tutto quello che serviva. Quando sono arrivati gli uomini dell’Is hanno trovato tutto pronto, perché erano mesi che i loro alleati di Ansar al Sharia agivano nell’ombra». Oggi nel tribunale della città dove lavorava Maklouf c’è una corte islamica, presieduta da un nigeriano di Boko Haram. Ansar al Sharia nel 2013 ha fornito pattuglie per la sicurezza nelle zone del golfo di Sirte, ha risolto dispute tra clan, organizzato raccolte di beneficenza per le famiglie bisognose e offerto il cibo per l’Iftar (il pasto che rompe il digiuno del Ramadan).
Pur avendo ottenuto il sostegno di Ansar al Sharia nell’ottobre del 2014, il Daesh ha cominciato ad agire pubblicamente solo a partire dal gennaio successivo, con le prime parate di pick up e bandiere nere. Da allora l’escalation è stata inarrestabile: l’occupazione della stazione radio, della televisione Wataniya, dell’ospedale Ibn Sina, dell’Università e dell’acquedotto. Poi è toccato agli edifici del governo dove l’Is ha inizialmente nominato come proprio capo Usamah Karamah, parente di un ex ufficiale della polizia segreta di Gheddafi. A febbraio le immagini dei 21 cristiani copti egiziani giustiziati su una spiaggia di Sirte hanno imposto al mondo l’evidenza che la Libia stava diventando l’avamposto dell’Is a 400 miglia dalle coste siciliane.
La giustizia dello Stato Islamico libico va avanti da allora con esecuzioni pubbliche, come quella di Ahmed Salem Abdul Salam. I soldati dell’Is l’hanno rapito a luglio, accusandolo di essere una spia. Hanno chiamato i suoi genitori garantendo loro che Ahmed avrebbe avuto un regolare processo e probabilmente sarebbe stato prosciolto. Invece il giorno dopo il corpo di Ahmed era infilato in un ponteggio sulla piazza di Sirte.
VITA SOTTO IL DAESH
Sono circa diecimila le famiglie in fuga da Sirte. Duemila sono a Misurata. Ibrahim è scappato da poco, a Sirte faceva l’autista. Ogni giorno per lavorare doveva attraversare i check point in entrata e in uscita dalla città. Racconta che fino all’inizio dell’anno i check point intorno Sirte erano presidiati da uomini legati all’ex regime di Gheddafi, «poi sono arrivati gli stranieri, nigeriani, sudanesi, afghani e molti tunisini. Con loro le armi e la paura».«Dopo febbraio», continua, «i miliziani hanno cominciato a bruciare in piazza le sigarette, a distruggere gli alcolici, e chiudere tutti i locali. Oggi a Sirte le donne hanno l’obbligo di vestire completamente velate, da due mesi è vietato usare i telefoni cellulari, la sera non si può uscire di casa e nelle scuole formano i nuovi soldati».
Un amico di Ibrahim, che parla solo al telefono e in forma anonima, perché la sua famiglia vive ancora a Sirte, è uno dei cinque autisti rilasciati. «Ci hanno fermato una decina di uomini con il passamontagna, erano siriani e iracheni e ci hanno portato in carcere». Makhmoud – lo chiameremo così – per mesi ha visto intorno a sé prigionieri picchiati con violenza. «Ci chiedevano di giurare fedeltà al Califfo. Un giorno hanno preso due uomini e li hanno portati via. Dicevano che dovevano sottoporli a processo perché erano stati sorpresi a camminare durante l’ora di preghiera. Solo dopo abbiamo saputo che erano stati decapitati in piazza. Noi non siamo stati maltrattati perché sapevano che avrebbero potuto avere un buon riscatto e chiedere in nome nostro uno scambio di prigionieri». Così è stato, l’11 novembre Makhmoud, i suoi quattro colleghi e i tre cadaveri sono arrivati a Misurata. Contemporaneamente undici miliziani dell’Is venivano rimessi in libertà per tornare a Sirte.
I SOLDI, LE ARMI
Secondo le testimonianze di molti sfollati da Sirte, i capi locali dell’Is starebbero prendendo possesso delle abitazioni abbandonate dai cittadini per darle ai loro uomini. Confermano questa tesi le brigate di Misurata, che hanno cercato di combattere l’ascesa dello Stato islamico, prima di ritirarsi. «Hanno occupato le case e le fabbriche», dice Amid, soldato della Brigata 166, «e istituito un ufficio locale delle tasse. Qui per fortuna non hanno ancora il controllo dei pozzi petroliferi ma ottengono denaro con le estorsioni e i rapimenti. Usano i check point come arma di ricatto. Impongono ai camionisti di lasciarli passare in città solo in cambio di soldi, cibo e carburante».
Secondo Tom Keatinge, direttore del Centre for Financial Crime and Security Studies presso la Rusi think tank, «il gruppo sta tassando le persone e le imprese e tutti i commerci che passano attraverso il territorio sotto il loro controllo, circa 150 miglia. Stanno sfruttando il contrabbando, che è un’ottima fonte di finanziamento, e si stanno alleando con le bande che controllano il traffico di uomini, non solo al nord ma anche nelle rotte commerciali nel sud ovest della Libia da cui passano anche armi». Un rapporto sul crimine organizzato in Libia stima che il traffico di uomini valga 320 milioni di dollari l’anno. Continua Keatinge: «È una buona ancora di salvezza per l’Is locale. Non è un caso che il prossimo avamposto sia Sabratha, città in cui si concentra larga parte delle partenze per il Mediterraneo. È inoltre presumibile ritenere che i vertici del gruppo mandati da al Baghdadi arrivino con molto denaro al seguito».
I SOLDATI
Secondo i servizi segreti libici ci sono cellule di fondamentalisti in ogni città del Paese. Alcuni mesi fa il capo dell’intelligence di Misurata è stato ucciso in un agguato dell’Is. Oggi al suo posto c’è Ismail Shukri. Che dice: «Abbiamo prove che da quando sono iniziati i raid sulla Siria, al Baghdadi stia mandando qui molti dei suoi uomini più alti in grado, sia dalla Siria sia dall’Iraq. Uno dei più anziani comandanti locali, Abu Ali al Anbari, un iracheno, è arrivato in Libia via mare. Così come era iracheno anche Abu Nabil al Anbari, ucciso nel raid americano di Derna, poche settimane fa. Sappiamo che ci sono nuovi campi di addestramento vicino Sabratha, nell’ovest del Paese. L’Is c’è, è in ogni città, ma non si vede». Se non quando scoppia un’autobomba. Tre a Khoms, sessanta miglia da Tripoli, solo la scorsa settimana. «Fino a poco tempo fa i miliziani erano 500», aggiunge Shukri, «oggi sappiamo che sono almeno 2500. Arrivano con le famiglie via mare, e con precisi ordini dai vertici del Califfato». Emigrare ed espandersi. A Ovest verso Misurata come a Sud, nel Fezzan.
Non è un caso che una delle prime prove di reclutamento all’interno della Libia sia stato un video in lingua Tamasheq in cui due capi Tuareg invitano tutti i popoli di Sahara e Sahel a combattere a fianco dello Stato islamico: «Chiedo ai miei fratelli Tuareg di migrare verso lo Stato islamico e donare le loro vite ad Abu Bakr Al-Baghdadi». Ad aprile Abu Muhammad Al Ansari (uno dei capi del califfato in Siria) ha esortato i miliziani dell’Is: «Andate in Libia, lì troverete case e cuori aperti per voi».
Poche settimane fa i rivoluzionari di Bengasi hanno diffuso l’audio di due messaggi telegram di militanti dell’Is: il primo sostiene di possedere una fatwa direttamente dal Califfo che gli ordina di prendere le mogli dei combattenti rivoluzionari come schiave. Il secondo è di un foreign fighter tunisino, ora a Sirte, che dice: «Allah verremo a te solo dopo aver macellato gli apostati che non sono musulmani e non meritano altro che il massacro». Sono dunque sempre di più le tracce che segnano la connessione diretta tra gli uomini di Al Baghdadi e l’Is libico.
IL LEADER RELIGIOSO
L’attuale leader spirituale a Sirte è Hassan al Karami, classe 1986, di Bengasi. Molti componenti della famiglia Karami erano uomini di Gheddafi: il cugino di Hassan, Ismail, ora in carcere, lavorava nelle forze di sicurezza di Gheddafi, e Nuri a Sirte lavorava per la polizia del regime. Al Karami, oggi mufti dello Stato Islamico libico, nel 2006 avrebbe combattuto in Iraq. A quel periodo si deve la sua conoscenza di al Zarqawi, predecessore di al Baghdadi, che in quegli anni era il leader di al Qaeda in Iraq. Rientrato in Libia, Karami ha approfondito la legge islamica in una Kkwala (scuola islamica privata) ed è diventato uno degli uomini di spicco di Ansar al Sharia, formazione che la sua famiglia, una delle più ricche di Bengasi, ha contribuito a finanziare. Lo scorso settembre, nella moschea al Rabat di Sirte, ha chiesto agli abitanti di consegnare le loro figlie per evitare la morte. «Abbiamo prove che Karami si muove liberamente in Libia, tra Derna, Bengasi e Sirte», commenta Shukri. «Sta supervisionando la costruzione dello Stato islamico. Il tempo è dalla loro parte, non dalla nostra. Perché l’Europa sembra cieca e mentre fa finta di non vedere, lo Stato islamico continua ad approfittare del caos del Paese».