il Giornale, 4 dicembre 2015
Il Giornale festeggia il pensionamento di Guariniello, «collezionista di flop»
Ormai è parte dell’immaginario collettivo: il nome di Raffaele Guariniello fa flipper nelle nostre teste quando ci troviamo davanti a una calamità, una malattia particolarmente aggressiva, uno scandalo ad alto contenuto tecnologico. L’Italia è un paese dalle coperte sempre troppo corte e allora non c’è da meravigliarsi che sia stato un magistrato ad intervenire e ad aprire fascicoli su fascicoli – 30mila in tutto, talvolta sorvolando su quel dettaglio chiamato competenza – per tappare buchi e chiudere falle. L’amianto e la tragedia dell’Eternit, l’avanzata sospetta di una patologia crudele come la Sla, la «Mucca pazza» e la farmacia proibita della Juventus, il rogo della ThyssenKrupp e il metodo Stamina: disgrazie e, nel perenne rimpallo delle responsabilità, lui e ancora lui a capire, a studiare, a cercare i colpevoli.
Raffaele Guariniello compie 74 anni e va in pensione. È un pezzo di storia nazionale che riempie l’archivio, al termine di una lunghissima carriera iniziata nel ’67 e da subito in prima linea con la scoperta delle schedature alla Fiat. Pretore globale, l’hanno ribattezzato i giornali, con cui è vissuto in simbiosi, o, se si preferisce pretore d’assalto, assai diverso però dai colleghi che negli anni Settanta avevano guadagnato la celebrità. Guariniello non ha mai sposato il colore dell’ideologia dominante e nemmeno ha cavalcato il furore giustizialista tanto à la page nell’Italia post Mani pulite, anzi è sempre stato allergico alle manette e pare non abbia mai chiesto un arresto; semmai ha costruito la sua reputazione sullo studio maniacale delle questioni, sull’impegno a ritmi giapponesi, in ufficio fino a mezzanotte e poi al sabato e magari pure alla domenica, sulla mistica della competenza. Doti che naturalmente ne segnano anche i limiti: un tecnico di questa levatura, quasi un ministro ombra o un dirigente dell’alta burocrazia, ha messo il dito in molte delle piaghe nazionali, ma un conto è sollevare problemi, altra cosa è vincere un processo. «Io – si è lasciato sfuggire in udienza – farei il processo ai reati più che agli imputati». E il colto Guariniello ha collezionato, per una ragione o per l’altra, una serie memorabile di flop: l’enciclopedica indagine sulla Spoon River di Casale Monferrato è finita con la sentenza choc della Cassazione: il processo era prescritto ancora prima di iniziare, uno scivolone a cui il super pm ha cercato di porre rimedio in tempo reale con una soluzione all’italiana, un’altra inchiesta, sulla stessa vicenda, ma con un nuovo capo d’imputazione, non più il disastro ambientale ma l’omicidio volontario. E così il procedimento sull’amianto si trasforma in una saga senza fine, come tante vicende della nostra imperscrutabile cronaca giudiziaria.
Ma l’errore, comunque lo si voglia classificare, non è stato un unicum; Guariniello è andato a sbattere anche nella vicenda, dolorosissima, del rogo alla ThyssenKrupp: dopo il disastro e la morte di sette operai aveva contestato l’omicidio volontario e la scelta era parsa azzardata a molti osservatori; previsione azzeccata quando la corte d’Appello ha ridimensionato la costruzione giuridica e rivisto al ribasso le pene, non più esemplari. Insomma, non sempre i titoli di prima pagina, le interviste dei tg e le migliori intenzioni possono salvare un impianto troppo sbilanciato. Si potrebbe proseguire con la clamorosa inchiesta sulla somministrazione di medicinali proibiti ai calciatori della Juventus, pure quella un’incompiuta, vanificata dal gong della prescrizione. Ma forse era un destino inevitabile per un precursore e un battistrada come lui.