la Repubblica, 4 dicembre 2015
I diari segreti di De André
Un’agenda di colore marrone. La pelle consunta, gli angoli arrotondati dall’uso. Si nota subito, infilata in un fascicolo preso da un ripiano in basso di questi scaffali colmi di nastri, di dischi, ma soprattutto di libri. I libri personali di Fabrizio De André. Sulla copertina è scritto: Agenda Casa 1997 della Banca popolare di Novara. La apro. È stata scritta, in realtà, l’anno successivo. Le date, cancellate e ricorrette, rimandano infatti tutte al 1998, a partire da settembre. Il mese successivo a quando Faber si era sentito male interrompendo il tour estivo. Sono i mesi finali della sua vita. E il documento che ho in mano è l’ultimo diario che il grande cantautore genovese ha adoperato e portato con sé prima di morire.
Siena, Facoltà di Lettere dell’Università, Centro interdipartimentale di studi Fabrizio De André. Un archivio che custodisce un tesoro, perché qui confluisce – con periodici nuovi arrivi – tutto il materiale dell’artista scomparso l’11 gennaio 1999. E poi l’agenda. Ci sono fogli sparsi, minute di lettere scritte da Dori Ghezzi, sua moglie, dopo la morte di Fabrizio. La prima pagina si apre con il nome e i riferimenti di uno pneumologo. Dietro, la simbolica fotografia di tre uomini che tirano a forza una corda, con molta fatica. Poi conti, appunti, recapiti telefonici. E ancora: disegni, annotazioni di carattere gastronomico e agricolo. Le sue passioni. Quindi citazioni di sue nuove composizioni, alle quali Fabrizio stava lavorando. Titoli di libri che potevano servire come spunti. Continuo a sfogliare. Ci sono le medicine da prendere, annotate una per una. Frasi sparse. «Ecco», fa notare Vera Vecchiarelli, l’archivista che fa da guida nel Centro studi senese, «qui la scrittura a un certo punto diventa più incerta».
C’è una sua poesia su San Francesco. Quasi non ci si crede: proprio il santo fonte di ispirazione per il nuovo Papa, Jorge Mario Bergoglio. È in stampatello. Un testo che arriva all’improvviso a confermare la consonanza di temi fra De André e il Pontefice. Perché proprio gli ultimi, i diseredati, sono i protagonisti della poetica di Fabrizio prima che il Papa Francesco ne facesse il suo campo di battaglia. Si prosegue. Altre frasi rapide, una, due righe. Poi, un lungo spazio bianco, pagine non scritte. Solo in fondo c’è un appunto più lungo. È quello finale. Il suo ultimo pensiero scritto. «Noi cantastorie andiamo in giro sollevando la polvere dai fatti memorabili, cerchiamo di farne mito o leggenda (abbiamo, a differenza dei giornalisti, la licenza di stravolgere) e se ci riusciamo davvero possiamo diventare OMERO, se non ci riusciamo per niente andiamo a comprare i giornali nelle edicole». Tipicamente deandreiano. Nella commistione fra alto e basso, nella chiusa finale: amara ma ironica. Ecco: in quello che è il suo ultimo appunto, Fabrizio ha riflettuto sul proprio mestiere. Ne ha difeso l’approccio e i modi. Si è riallacciato ai classici. E ha concluso con una frase spiazzante. Da Milano la Fondazione Fabrizio De André, presieduta da Dori Ghezzi, conferma: sì, questi pensieri sono scritti da Faber di suo pugno.
Su uno scaffale si intravede un altro quaderno. Ha un colore verde chiaro, un nome – Outport Land – in stile marinaro. È di qualche anno precedente. Dentro c’è una poesia, bellissima e terribile. Il titolo è Il testamento.
Accomuna la morte del padre Giuseppe, per anni amministratore delegato di Eridania, e del fratello maggiore di Fabrizio, Mauro, notissimo avvocato a Genova. Vera Vecchiarelli mostra nel dettaglio come De André operava nella stesura delle sue canzoni: «Fabrizio aveva la mania di annotare tutto quello che faceva, anche nelle cose quotidiane: da come prepararsi per i concerti ai concetti da esprimere fra una canzone all’altra, dagli alimenti da assumere quando voleva fare dieta alle formazioni della squadra del Genoa la domenica. A volte ho l’impressione che scrivesse tutto come per farsi leggere, un giorno, da chi avrebbe aperto i suoi quaderni. E tutto ciò che faceva, lo faceva molto seriamente, in maniera meticolosa, strutturata». Il Centro studi di Siena custodisce in realtà il metodo di De André. Lo stesso che la studiosa Marianna Marrucci, che ha collaborato all’archivio, definisce come una «poetica del “saccheggio”». E cioè, «un riuso originalissimo delle proprie letture: idee, temi, immagini, versi, sintagmi migrano dalla pagina alla voce in un impasto tanto più eterogeneo quanto più coerente e originale». Una visita qui permette di capire come Fabrizio studiasse i testi e li annotasse per poi riutilizzarli nelle bozze di lavoro. E la mole di volumi consultati per scrivere un brano di pochi minuti poteva essere impressionante. Segnati ovunque: sul frontespizio, nelle pagine bianche, in cima, in fondo, ai lati come se fossero glosse, su fogli che prendeva e accludeva. Il “saccheggio” consisteva poi nell’individuazione di un termine, una frase, un concetto, che venivano cerchiati, prelevati e incastonati nel nuovo lavoro, quindi rielaborati in modo magari molto diverso rispetto alla fonte originaria.
Allora, il termine più corretto è forse la parola “contaminazione”. Nascevano così, fra i testi assimilati e la collaborazione successiva con artisti del calibro di De Gregori, Fossati, Pagani, Bubola, Piovani, Mannerini, quelle perle immortali che conosciamo tutti, nei tredici album considerati capolavori assoluti della canzone italiana d’autore.