La Stampa, 4 dicembre 2015
Viaggio nell’archivio degli Amici della Scala con Abbado, Muti, Bompiani, Ronconi, Pollini, ecc.
Lo ammette in un soffio, Anna Crespi Morbio, dopo due ore di chiacchierata: «Quegli anni lì sono stati magnifici. Magnifici». Un mare di gente: Abbado e Muti, la Gencer e Calasso, Pollini, Ronconi e la Gae. E Rostropovich, e Prêtre, e Maazel. Placido Domingo e Ruggero Raimondi. Ma anche Anthony Burgess e Gerry Mulligan, Alvin Ailey, Seiji Ozawa, perfino gli attori bergmaniani Erland Josephson e Ingrid Thulin. Tutti da Anna, non necessariamente il sabato sera, prima in corso Venezia e poi in via dei Giardini. Anzi: tutti dagli Amici della Scala, l’associazione di mecenati «libera, apartitica e non a scopo di lucro» che dal 1978 accompagna il lavoro e la gioia del primo teatro al mondo. Anima e fulcro questa signora dai begli occhi castani, cresciuta fra Palazzo Serbelloni e una villa lombarda dove ancora spirano le presenze degli antichi precettori di famiglia Giuseppe Parini e Paolo Frisi.
Stile sobrio
Dagli archivi degli Amici emergono centinaia di immagini in bianco e nero dal rapinoso sapore d’epoca. Eccoli tutti seduti, la sigaretta in mano, lo stile sobrio esoigné di una Milano più da pensare che da bere. E altro che selfie: «Come comportarmi davanti ai fotografi – ricorda la padrona di casa – me l’aveva ordinato Zeffirelli. Alza la testa. Non sorridere. Non ridere. Stai immobile. Taci».
Difficile trasmettere questa certa idea di Milano a chi per ragioni anagrafiche non c’era. Ma la Scala è sempre la Scala, regnante Carlo Maria Badini, che volle l’associazione, o Alexander Pereira, che si prepara al suo primo Sant’Ambroeus da sovrintendente. E gli Amici della Scala sono vivi e vegeti: custodiscono i tesori dei bozzetti storici, hanno appena pubblicato cinque volumi, sulla scenografa Titina Rota e sul lavoro al Piermarini di Alberto Savinio, Umberto Brunelleschi, Ebe Colciaghi e Mario Cito Filomarino. Le conferenze da loro promosse, «Prima della prima», raccolgono sempre un bel pubblico, ultima quella dell’altro giorno sulla Giovanna d’Arco inaugurale.
Non tutto era rose e fiori, naturalmente, in quegli anni «magnifici». I Crespi delCorriere della Sera erano a rischio di rapimento e per un bel po’ Anna, che aveva tre bambini piccoli, girò «malvestita, sempre in mantella, sostenuta solo dall’adrenalina. Rostropovich mi disse una sera al Biffi Scala: Anouschka, non essere triste. Temo per i miei figli, gli ho risposto. Allora lui ha scritto sul programma di sala: in caso di rapimento di Anna Crespi o di uno dei suoi figli m’impegno a lavorare gratis per tre anni. E sì che era profugo, e un bel po’ tirato coi soldi».
Il conflitto Fontana-Muti
Claudio Abbado? «Una personalità interiorizzata, l’opposto di Riccardo Muti che con lo charme napoletano affascina gli uomini e fa innamorare le donne. Claudio era rispettato come musicista ma rifiutato personalmente da una parte della città che non ne perdonava le idee politiche. Una volta mi chiese una mano per restaurare il Farnese di Parma e son dispiaciuta di non esserci riuscita». Maurizio Pollini? «Lavora anche in viaggio, anche senza pianoforte, pensando e meditando. Ricordo una vacanza nei Mari del Sud, c’era anche Gae Aulenti e a pranzo una volta lasciai la tavola di mio marito e dei nostri amici per unirmi a loro. Speravo in una conversazione superinteressante e invece ci fu un silenzio impenetrabile. Alla fine, quando Pollini si alza per andare a fumarsi un sigaro e a giocarsi una partita di carte, Gae incrocia mio marito e gli dice: sua moglie è una donna straordinaria. Credo di aver superato l’esame. Quella volta, era il silenzio che bisognava rispettare».
Gli anni del conflitto Fontana-Muti non furono facili per il teatro e per chi ci lavorava intorno: «Tenni sempre la parte dell’artista, cioè di Muti, ma ci fu qualche incomprensione e lui con me si arrabbiò lo stesso. A una cena ufficiale decido di sciogliere il ghiaccio e vado a salutarlo. Lui, impassibile, mi fa: signora, quando è entrata lei nella sala mi sono fatto male a un ginocchio. Non dica così, maestro, lei il ginocchio se l’era battuto prima. Ha capito, mi ha abbracciato, abbiamo fatto pace».
I biglietti da Domingo
E poi Ruggero Raimondi innamoratissimo della bella signora bolognese che poi diventò sua moglie, e Domingo che, durante una tournée in Giappone, «visto che mi voleva bene e che il teatro a quell’epoca mi teneva un po’ in disparte, i biglietti per me e mia figlia Vittoria li procurò sempre lui». Valentino Bompiani che la ospitava a Lerici, Anthony Burgess dal gran carisma alcolico, Leyla Gencer che la voleva accanto a ogni spettacolo, Spadolini direttore del Corriere a cena al Boeucc («Gli dissi: ma sa che lei potrebbe fare il politico? Non è mica un gran complimento, mi rimproverarono dopo gli altri commensali, ma alla fine ci avevo visto giusto»). Se le chiedi un’impossibile classifica risponde: «Sono stati tutti importanti». Ma nella borsetta tiene sempre la fotografia del grande amore perduto, Guido Cantelli: «Io ero una ragazza bella e spaventata, lui era sposato ma per me perse la testa. Partì per gli Stati Uniti e mi lasciò un biglietto: quando torno ti porto via. Non è più tornato, il suo aereo è caduto vicino a Parigi».