Corriere della Sera, 4 dicembre 2015
Il nuovo Qe di Draghi non salverà l’Italia. Ecco perché
C’è un episodio che si collega con la più grande espansione monetaria che l’Europa ricordi, rafforzata ieri da Mario Draghi. Ma non riguarda i tassi d’interesse. Riguarda Gragnano.
In quel comune in provincia di Napoli un imprenditore della pasta, Ciro Moccia, è stato attaccato davanti a casa cinque giorni fa: nove colpi, uno dei quali lo ha ferito a una gamba. Non tutto è chiaro di quel fatto di cronaca, qualcosa però sì: fa più per scoraggiare investimenti, chiudere imprese, creare disoccupazione e deflazione in Italia quell’unico proiettile nel polpaccio di un imprenditore, di quanto non spinga in direzione opposta la Banca centrale europea creando 1.500 miliardi di euro per comprare titoli di Stato od obbligazioni private.
Quell’agguato si colloca su un punto estremo di una scala di disincentivi più o meno pesanti, più o meno legali. Il Nord non è come il Sud e il Sud non è tutto così. Ma dal più aberrante al più sottile, troppi fattori ovunque nel Paese militano verso lo stesso risultato: ogni euro aggiunto nel tessuto dell’economia dalla Bce porta a un aumento di produttività vicino allo zero. Per la precisione, sempre più vicino allo zero.
Non è colpa della Banca centrale. Non significa che essa non dovrebbe agire come fa, inoltrandosi più o meno decisa in acque inesplorate. Basta chiedersi cosa accadrebbe se la Bce facesse il contrario, se negasse liquidità perché viene usata male in un sistema pieno di disfunzioni. Ogni euro tolto dall’economia per questo, porterebbe stress e crolli di produttività; strapperebbe la maschera alla fragilità finanziaria del Paese. Quello che fa la Bce è necessario, dobbiamo solo toglierci dalla testa che sia sufficiente.
In questo l’Italia è solo un caso particolarmente evidente. Un po’ ovunque nell’area euro l’espansione monetaria non si sta traducendo automaticamente in un aumento del credito alle imprese. Nel terzo trimestre, mentre il sistema Bce comprava 24 miliardi di debito italiano, gli investimenti nel Paese sono scesi dello 0,4% (dello 0,9% sui macchinari). Malgrado il successo di Draghi nell’indebolire l’euro, rendendo i prodotti europei più competitivi nel mondo, fra luglio e settembre il contributo dell’export alla crescita italiana è stato di meno 0,4%.
Quanto al credito, anche qui il molto che fa la Bce non basta. Lo stock di prestiti delle banche alle imprese non finanziarie in Italia valeva venti miliardi di euro di più un anno fa; valeva sette miliardi più all’inizio di questa campagna monetaria che oggi. Nell’insieme dell’area euro i risultati sono simili, benché meno accentuati: a ottobre lo stock di credito delle banche alle imprese valeva 16 miliardi meno che a marzo.
Dunque tutto inutile? No, e non solo perché l’assenza di interventi sarebbe molto peggio. Gli ultimissimi mesi mostrano una timida ripresa dei prestiti, anche in Italia. Ma la Bce non può creare le condizioni di sicurezza che contrastino il dimezzarsi degli investimenti nel Sud Italia, per esempio. Né può trasformare la struttura dei rapporti fra finanza e impresa in Europa, che rende il suo bazooka meno efficace di quello della Federal Reserve negli Stati Uniti. Nell’area euro i prestiti bancari alle imprese rappresentano il 102% del Pil, in America solo il 47%. La ragione è che dall’altra parte dell’Atlantico gli imprenditori con una buona idea si finanziano più direttamente sui mercati: la quota di capitale azionario è pari al 117% del Pil in America, al 67% in area euro (ancora meno in Italia). Quando calano i tassi grazie al quantitative easing, la ripresa dei finanziamenti negli Stati Uniti è immediata, in area euro è mediata dalle banche e dunque dipende dalle loro condizioni.
In Italia, non è ottima. Dopo la recessione il sistema resta oberato da 350 miliardi di crediti deteriorati. Bisognerebbe ripulire i bilanci, anche grazie a una garanzia pubblica come accade sempre quando si creano dei fallimenti nel funzionamento del mercato. Qui un’opposizione un po’ bigotta dalla Commissione europea e dalla Germania sta bloccando tutto: in caso di intervento pubblico vanno colpiti i risparmiatori privati, si dice. Sulla scala di un intero Paese? L’Italia ha strumenti per dimostrare l’impraticabilità di una richiesta simile: il suo direttore del Tesoro presiede a Bruxelles il comitato di stabilità finanziaria, dove si possono discutere e rovesciare le idee sbagliate. Ma non ha mai messo il problema all’ordine del giorno.
C’è poi l’impatto sui conti pubblici. Grazie alla Bce, per fortuna i tassi sui titoli di Stato ormai sono bassissimi. Oggi chi investe 100 mila euro in Btp a 10 anni, anche dopo il balzo dei rendimenti di ieri, sa che alla fine del 2025 avrà guadagnato appena 1.435 euro netti. Nel frattempo però rischia di vincolare i propri soldi per dieci anni e registrare forti perdite teoriche ogni volta che il prezzo dei suoi titoli scende a causa del peso di un debito enorme. Investire così è razionale solo se un risparmiatore pensa che con un rendimento di 1.435 euro comprerà in futuro più cose di oggi; in altri termini i titoli di Stato italiani rischiano di diventare attraenti solo se si scommette sulla continua caduta dei prezzi, cioè sul fatto che il Paese non ripartirà. Altrimenti nessun privato comprerebbe più, e resta solo la Bce a sostenere il debito.
È un paradosso, ma mostra che l’urgenza di risanare non è passata. La Banca centrale di Draghi ci ha salvati e continua a farlo. Ma illudersi che basti a risolvere i nostri problemi, significa volerla imprigionare per anni o decenni in questo ruolo di manager della nostra tenda a ossigeno. Il quantitative easing è stato eroico come risposta all’emergenza. Preoccupiamoci quando, per colpe non sue, diventa l’unico possibile modello di sviluppo.