Corriere della Sera, 4 dicembre 2015
«Questi test anti-doping sono deliranti». La protesta di Tamberi
Il Tamberi nel listone dei 26 atleti deferiti dalla Procura antidoping del Coni, con richiesta di squalifica per due anni per «eluso controllo», non è Gianmarco, il ragazzo con mezza barba e talento per due, capace di arrampicarsi a 2.37 metri nell’alto (primato italiano, Eberstadt 2 agosto scorso) lasciando intravedere, tra schiena e asticella, altre meraviglie. È Gianluca, il fratello giavellottista. «Lui è il bello di famiglia: è stato eletto Mister Italia nel 2012, poi gli è cresciuto qualche brufolo e si è messo a fare l’atleta a tempo pieno – scherza Gimbo con poca voglia di ridere —. Ora è in raduno in Spagna. Non l’ho sentito ma, se lo conosco, sarà inca...ato come una belva».
Tamberi, che sta succedendo all’atletica italiana?
«Brutta roba. Sono nero. Stanno rovinando l’atletica e da queste palate di fango sarà difficile ripulirla. Io non capisco perché devono buttare via anche quel poco di buono che c’è nel nostro Paese...».
Mettiamo qualche puntino sulle «i».
«Innanzitutto non si tratta di doping. È fondamentale sottolinearlo. Non esistono test positivi. L’unico positivo in Italia, all’Epo, è Alex Schwazer».
Sta pagando e vuole tornare a Rio.
«Per quanto mi riguarda, potrebbe rimanere a casa e cambiare mestiere. Al raduno di Fiuggi, presenti tutti i miei colleghi della nazionale, ho proposto di rinunciare all’Olimpiade se portano lui».
Addirittura.
«Guardi, il Mondiale di Pechino con le sue zero medaglie ha dimostrato che, al momento, di fenomeni italiani non ce ne sono. Il sospetto che ci si possa dopare per non vincere niente fa di noi, quanto meno, degli sfigati. Personalmente, preferirei tornare da Rio senza titoli ma con la coscienza pulita piuttosto che con l’unica medaglia di Schwazer nella marcia».
Torniamo ai test elusi: il sistema dei whereabouts era così fallace?
«Un delirio».
Racconti.
«Trimestralmente, per i tre mesi successivi, bisogna comunicare la reperibilità agli ispettori antidoping: un’ora al giorno, tutti i giorni. Io ho avuto la fortuna di entrare nel sistema quando è diventato online e mi sento di poter dire di avere la coscienza cristallina. Tra Pechino e Zurigo, in una settimana, mi hanno controllato quattro volte. Ma prima era un disastro. Che ha coinvolto mio fratello».
Cosa le ha raccontato?
«La piattaforma dei whereabouts funzionava male o non funzionava affatto, gli atleti pensavano di aggiornare le reperibilità e invece la comunicazione non arrivava a destinazione. Scriveva la Fidal: ragazzi, occhio che siete in ritardo... E gli atleti: ma se abbiamo già compilato il modulo! Allora partiva il fax... Insomma, un casino allucinante».
Che nessuno si è mai premurato di sistemare.
«Un sistema con falle immense che ha messo in cattiva luce gente che non c’entra niente. Ventisei atleti con lo stesso problema, altro che doping: le sembra normale?».
O ventisei atleti che hanno volutamente eluso i test.
«Ma quando mai? Molti li conosco e ci metto la mano sul fuoco: Meucci e quelli che erano con me a Pechino, poi Greco, Donato, la Salis... Innocenti vittime del sistema per cui hanno chiesto due anni di squalifica. È imbarazzante».
Questo scandalo intacca il suo approccio all’atletica?
«Per niente. Continuo ad allenarmi in vista dei Giochi. Questo incubo finirà in una bolla di sapone».
Se non fosse così? Se a Rio per l’Italia ci saranno Tamberi e pochi altri?
«Sarebbe tragico, e ingiusto».