Corriere della Sera, 4 dicembre 2015
Wim Wenders si è dato alla pubblicità
«Quasi tutti i miei film, a parte due o tre forse – che non sono poi così belli – sono ambientati in un luogo preciso perché le storie che raccontano potevano succedere soltanto là. Ci sono registi che cominciano dai personaggi, altri dallo stile: io parto sempre dal posto in cui succederà l’azione». Il cinema ha i suoi poeti, i suoi filosofi: in Wim Wenders, ha trovato il suo geografo. Eppure il film più famoso del cineasta tedesco, «Il cielo sopra Berlino» (1987), racconta in bianco e nero le vite degli angeli che vegliano sulla città divisa dal Muro che stava per cadere, e anche se non poteva non essere ambientato a Berlino si regge non sulla città ma su uno sguardo, e un sorriso. Il cuore di quel film batte grazie a Solveig Dommartin, trapezista di un circo piccolo e male in arnese. Un angelo, Bruno Ganz, si innamora, e per lei decide di diventare umano.
Dommartin è stata una delle donne più importanti della vita del regista – che ha avuto cinque mogli – anche se non sono mai stati sposati durante la loro lunga storia d’amore tra gli anni 80 e i primi 90. Lei era al suo fianco durante le riprese di «Tokyo-Ga» – di quel film curò il montaggio – e di tre film è stata musa, protagonista e di fatto co-autrice: «Il cielo sopra Berlino», «Così lontano, così vicino» e «Fino alla fine del mondo». La trapezista dal sorriso così dolce da far perdere le ali agli angeli non c’è più, scomparsa nel 2007 per un male improvviso e Wenders – gentilissimo ma altrettanto riservato – non ha mai parlato della sua morte. Ha fatto un’eccezione, a sorpresa, in questa intervista, con un monologo emozionante, pronunciato a fatica, con la voce molto bassa e lo sguardo fisso su un punto indefinito della parete della sua grande stanza d’albergo milanese. Parlando piano. Con tristezza – e tenerezza – infinite.
La storia mai raccontata
«Solveig non aveva mai paura, di niente. È la parola che la descrive meglio di tutte: era senza paura. Una volta, avevamo appena cominciato le riprese de “Il cielo sopra Berlino”, cadde da quel maledetto trapezio, cadde per terra in un punto dove non c’erano protezioni, da sei metri di altezza. A volte vedi succedere qualcosa – un incidente d’auto per esempio – e le immagini rallentano tanto quanto i tuoi pensieri diventano veloci. Non aveva ancora toccato terra che avevo già pensato: basta, è la fine del film, anche se per miracolo non è rimasta ferita il film finisce qui. Niente “Cielo sopra Berlino”. Sul set, restiamo tutti paralizzati: lei è ancora a terra. Corriamo tutti da lei. Ecco un medico. Qualcuno chiama l’ambulanza. Ma Solveig si alza, piano, si appoggia al braccio del suo istruttore, un ungherese, un acrobata da circo molto esperto che le aveva insegnato tutto in soli tre mesi, torna sulla scaletta, sale, riprende la scena daccapo. “Devi tornare subito su, altrimenti la paura ti paralizza”, mi dice l’ungherese. E lei è già lassù, devo dare di nuovo il ciak. Ecco: era senza paura. Non ha avuto paura neanche alla fine; eravamo rimasti sempre in contatto, anche dopo la fine della nostra storia. Sono stato con lei fino alla fine, quando nessuno poteva più aiutarla. Sono già passati… dieci anni? (otto, ndr ). È una delle cose più tristi che ti succedono nella vita, non poter aiutare qualcuno che ami. Una cosa terrible succede davanti ai tuoi occhi e non puoi fare niente. Fu spaventoso vederla deteriorarsi lentamente, lei che era così piena di vita. Per lei, ogni giorno era una festa. Solo lei poteva convincere il pubblico che un angelo avrebbe rinunciato a volare per darle una carezza. E alla fine vedere lei, sempre piena di energia, di sorrisi, vederla perdere tutto… Abbiamo fatto tre film insieme: alla fine la stampa le fece molto male, a Cannes ricevette per “Fino alla fine del mondo” delle pessime recensioni, fu trattata selvaggiamente dai critici francesi. Portai il film a Cannes in una versione sbagliata, almeno adesso in dvd qualcuno può vederlo come era stato pensato da me e Solveig, può vedere quanto era brava, quanto era speciale. Ma nella versione di Cannes Solveig era troppo esposta, c’era troppo peso sulle sue spalle. E ha sofferto per quelle recensioni che le rovinarono la carriera. Non sono riuscito a proteggerla allora, e non sono riuscito a proteggerla quando si ammalò. È un pensiero che non mi abbandonerà mai».
Wim Wenders, a Milano per presentare il minifilm per Persol «Vai, paparazzo!» con se stesso nei panni di un regista dell’età dell’oro di Cinecittà, ammetteva che «oggi, dopo la rivoluzione della tv, della pubblicità e infine quella digitale, puoi ancora aver fiducia nelle immagini. Ma le immagini hanno bisogno di un po’ d’aiuto… Helmut Newton – una volta fece il mio ritratto: che uomo interessante, che uomo ossessionato! – diceva già vent’anni fa che ci sono troppe immagini intorno a noi. Aveva intravisto i primi segnali di quello che ci circonda oggi. Le immagini che si dissolvono nei loro stessi atomi».
I tre angeli del cinema
«Da bambino credevo che del cinema ci si potesse fidare: i western, cowboy e indiani. Da ragazzo, poi, mi sembrava che nel cinema ci fossero, in modo assoluto, verità e bellezza: i film di Bergman, di Fellini… Negli anni 70 però le immagini smisero di raccontarci il 100% di una storia. Pensavo che avrei fatto l’artista. Poi capii che le immagini, le parole, la musica – quello strano triumvirato – potevano ricostruire la verità e la bellezza che andavo cercando. Sono diventato regista per capire come mai il nostro sguardo non ci racconta tutto quello che vorremmo sapere». Wenders non si rassegna e da giovane settantenne ha «ricominciato da zero con il 3-D, la tecnologia con la quale ho raccontato in “Pina” l’arte della coreografa Pina Bausch».
Liquida Quentin Tarantino così: «Dice che smetterà di fare film quando smetteranno di produrre pellicole perché disprezza il digitale, ma è già una discussione obsoleta. A non essere obsoleta è la questione del 3-D: quando serve a rappresentare la realtà e quando serve solo per gli effetti speciali? No, neanche la nostalgia è più quella di una volta». «Il cielo sopra Berlino» è dedicato «a tre angeli del cinema, Yasujirō (Ozu, ndr) François (Truffaut, ndr), Andrei (Tarkovsky, ndr )», tre eroi di Wenders. Non c’è bisogno di aggiungere un’altra dedica, a Solveig, non c’è bisogno di nostalgia: «Semplicemente quel film non esisterebbe nemmeno, senza di lei».