Corriere della Sera, 4 dicembre 2015
L’inchino al boss con la musica del Padrino. È successo a Paternò
I simboli della festa per la Santa s’inchinano davanti alla casa del boss, mentre la banda intona la musica del Padrino, e il questore espelle quegli stessi simboli dalle prossime manifestazioni in onore della Patrona. Perché la commistione tra l’omaggio alla santa e quello al capocosca diventa «una chiara manifestazione della forza intimidatrice, tipica del potere mafioso, dando luogo a una condotta pregiudizievole per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica».
È successo a Paternò, piccolo comune alle porte di Catania, meno di cinquantamila abitanti che questa settimana rendono onore a Santa Barbara, la protettrice celebrata con processioni che vanno avanti per giorni; ma oggi, domani e nella «ottava» del 12 dicembre, non potranno partecipare i titolari dei «cerei votivi» che hanno dato vita al piccolo show davanti alla casa di un detenuto condannato per associazione mafiosa, un quarantatreenne considerato il boss del paese, affiliato al clan Santapaola che da decenni domina sulla provincia di Catania. Sono i rappresentanti degli «antichi mestieri» degli Ortolani e dei Dipendenti comunali, che ostentatamente hanno voluto ossequiare il capocosca chiuso in carcere.
Come hanno riferito i carabinieri che seguivano il corteo, «i portatori di due “varette”, dalle ore 12.55 alle ore 13.20, si sono fermati dinanzi all’abitazione della famiglia del noto pluripregiudicato, eseguendo a turno il classico “dondolamento” delle “varette” effettuando movimenti simulatori di un inchino reverenziale dinanzi al figlio del detenuto, dal quale si congedavano con il rituale bacio finale». Anche il figlio ha avuto qualche problema con la giustizia, ed è sceso in strada per accogliere il saluto e ringraziare.
Appena avuta la notizia, il questore Marcello Cardona ha deciso di punire i responsabile, con l’estromissione dai festeggiamenti successivi. Per provare a mettere un freno a un fenomeno che in terra di mafia continua a ripetersi, in Sicilia come in Calabria, quasi fosse una sfida alle istituzioni; e per dimostrare che lo Stato non resta a guardare davanti a uno sberleffo così conclamato. Dal momento che quell’inchino non è solo un segno di deferenza al boss, ma anche di risposta a chi l’ha condannato e lo tiene in galera. Un dispetto all’antimafia, prima ancora che un omaggio alla mafia.
È quello che si può intuire guardando la scena che qualcuno ha ripreso con un telefonino, dove si vedono i portatori che piegano prima la grande teca che sorreggono e poi loro stessi. Sulle note del Padrino, in stile funerale Casamonica, ma poco dopo su quelle di una nota canzone romanesca, «Tanto pe’ canta’», come a rendere evidente la presa in giro di chi ha giudicato colpevole e messo in carcere un signore che invece è considerato degno del massimo rispetto.
Ma in quelle terre dove indagini e operazioni di polizia continuano a dimostrare che è ancora forte il potere dei clan, non è più tempo di goliardate e sfide attraverso gesti magari folcloristici ma densi di significati. Soprattutto per i cittadini locali, che sanno leggere anche i messaggi lanciati durante una festa religiosa.